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Olimpiadi, la sfida di Tokyo 2020 all’ambush marketing

olimpiadi tokyo 2020

Associare la propria immagine a un evento internazionale sponsorizzato da un competitor. E oscurarne la visibilità. Guerrilla marketing, acrobazie creative per trarre il massimo da una grande ribalta mediatica, senza sostenere il peso dell’investimento economico. Si chiama ambush marketing, marketing d’imboscata, e c’è il rischio che avvenga anche a Tokyo 2020.

Questo nonostante il Covid-19 abbia quasi messo in fuga i main sponsor, che temono ripercussioni commerciali per il legame con la manifestazione: multinazionali che non sono sponsor dei Giochi, ma che costruiscono una strategia di comunicazione per intrecciare le properties olimpiche al proprio marchio. Tempismo, visione, una buona quantità di faccia tosta.

È una delle tecniche più diffuse dell’unconventional marketing, è anche la dannazione di tanti colossi commerciali che invece hanno l’accordo con il Cio, con diritti esclusivi per l’utilizzo della proprietà intellettuale (IP) sui Giochi e le relative opportunità di marketing e pubblicità, per poi vedersi oscurati da altri brand.

Il fenomeno si è ingigantito ovviamente con l’esplosione dei social network e ha conosciuto il punto più alto a Rio de Janeiro, cinque anni fa. In Brasile ci sono stati almeno dieci sponsor, senza alcun tipo di vincolo contrattuale con il Cio, che si sono segnalati per ambush marketing.

Da Under Armour (con aree per la pratica sportiva all’aperto con il logo dell’azienda lungo la spiaggia di Copacabana, location di molti eventi olimpici) a Nintendo, Nike, Ford.

E proprio dopo il boom degli sponsor ambusher in Brasile (pubblico televisivo globale da 3,2 miliardi di persone) è stata varata due anni fa la legge scudo del Cio per contrastare l’ambush marketing, la Rule 40, secondo cui durante i Giochi i marchi che non sono sponsor olimpici non possono utilizzare nomi, immagini o video delle performance degli atleti che partecipano alle gare e le disposizioni valgono anche per la comunicazione legata al marketing di atleti, allenatori, dirigenti delle varie federazioni.

LA STORIA DELL’AMBUSH MARKETING AI GIOCHI OLIMPICI

Utilizzando la macchina del tempo, il primo caso si è verificato nel 1984: Kodak invece di firmare un assegno corposo per mettere il logo accanto a quello dei Giochi come la concorrente Fuji (sponsor ufficiale dell’evento), preferì sponsorizzare i programmi televisivi che raccontavano le imprese degli atleti statunitensi alle Olimpiadi, con una campagna molto simile a quella di Fuji, proponendosi al pubblico come uno degli sponsor ufficiali della manifestazione.

Un caso di coattail ambushing, associazione indiretta tra brand ed evento sportivo che crea ambiguità sull’identità degli sponsor ufficiali. C’è poi l’insurgent ambushing, la promozione di un brand tramite azioni a sorpresa sugli spalti dell’evento sportivo oppure in luoghi vicini, per destare l’attenzione del pubblico consumatore sull’azienda parassita.

A Barcellona 1992 la Nike, che aveva a libro paga quasi tutti i cestisti Nba del Dream Team (da Michael Jordan a Magic Johnson, Larry Bird, Charles Barkley), convocò una conferenza stampa con tutti gli atleti presenti. E lo sponsor tecnico ufficiale per gli Stati Uniti era Reebok. Lo stesso brand che Jordan oscurò sul palco mentre riceveva la medaglia d’oro a Barcellona.

Ancora Nike, ai Giochi di Atlanta 1996, con la città della Georgia tappezzata di cartelloni, manifesti con il celebre swoosh e con uno store gigantesco in prossimità degli stadi. Con ritorni pubblicitari a svariati zeri senza pagare il conto agli organizzatori. Non era tra gli sponsor olimpici. Un saldo da 50 milioni di dollari.

RULE 40 E TOKYO 2020

Il governo giapponese ha promesso al Cio di proteggere le proprietà intellettuali sulle Olimpiadi e di lavorare per prevenire l’ambush marketing attraverso la sua legge sui marchi, contro la concorrenza sleale per la tutela del copyright.

Dunque, a Tokyo le aziende non sponsor dei Giochi possono utilizzare l’immagine di un atleta a scopo di marketing solo se l’attività si svolge con il consenso dell’atleta.

Inoltre, l’attività non deve coinvolgere quelle categorie merceologiche incompatibili con i valori imposti dal Cio, ovvero tabacco, gioco d’azzardo e alcol.

Le campagne pubblicitarie poi non devono contenere properties olimpiche e non devono essere legate con le prestazioni dell’atleta.

Inoltre, deve trattarsi di un contenuto integrato in una campagna attivata 90 giorni prima del via dei Giochi.

Tra gli esempi, le aziende non sponsor non potranno pubblicare messaggi di congratulazione o rammarico verso gli atleti rappresentati.

Ci sono solo cinque paesi (Usa, UK, Germania, Australia, Canada) che hanno strappato qualche deroga: gli atleti di queste delegazioni potranno ringraziare gli sponsor, riceverne messaggi di congratulazioni, attivare campagne di marketing durante i 21 giorni di gare.

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