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Sindaci elettori del capo dello Stato

quirinale mattarella

È tempo ormai che anche i sindaci delle grandi città, a partire da quelli dei capoluoghi di regione, siano parte di quello speciale collegio che elegge il presidente della Repubblica.

QUESTA È STATA la proposta che, molto autorevolmente, il presidente dell’Associazione nazionale dei Comuni italiani (Anci) Antonio Decaro ha formulato a inizio novembre; una proposta seria che, nonostante il buonsenso delle ragioni istituzionali a suo supporto nonché quelle costituzionali che la legittimano, è stata tuttavia solo relativamente presa in considerazione. Eppure, appunto, ha una sua forza oggettiva, difficilmente archiviabile.

Ma andiamo con ordine, che il tema è tanto antico quanto moderno.

L’Assemblea costituente, come è noto, non volle che la figura del presidente della Repubblica venisse legittimata dalla sola rappresentanza politica espressa dai partiti in Parlamento, temendo che la figura presidenziale, in qualche modo, potesse finire per essere in una posizione non autonoma rispetto alle due Camere, se non addirittura del tutto subordinata. Per cui, come avviene in altri ordinamenti parlamentari europei che integrano il voto per l’elezione presidenziale con la partecipazione di altre figure istituzionali (Germania, Estonia), si ritenne opportuno introdurre un quid pluris che allargasse la legittimazione istituzionale del presidente nel momento della elezione, in una logica che non guardasse esclusivamente al rapporto eletto-elettori derivante dai soli parlamentari, ma che fosse fondata anche intorno a quello tra il cittadino e l’articolazione del potere sul territorio, espresso dalla presenza appunto anche di delegati individuati dalle Regioni (nel numero di tre per ciascuna, tranne la Valle d’Aosta che ne esprime solo uno), nel pieno rispetto delle minoranze.

QUESTA SCELTA HA DATO VITA a un collegio elettorale di tipo misto, nel quale vengono a concorrere due diverse componenti, ciascuna potenzialmente con una logica distinta: l’una espressione di una rappresentanza di tipo propriamente politico incarnata dai partiti, dentro le dinamiche della forma di governo; e l’altra, di tipo istituzionale, derivante dai delegati regionali che esprimono strutturalmente la forma di Stato di tipo composito che caratterizza il nostro Paese, sebbene i delegati regionali – come è evidente – siano marginali nei numeri complessivi, e in genere irrilevanti politicamente (posto che anche loro sono eletti, per lo più, nei medesimi partiti presenti in Parlamento, ai quali evidentemente rispondono).

In ogni modo, questa soluzione di compromesso, se da un lato ha rafforzato la legittimazione della figura di garanzia istituzionale del presidente della Repubblica, ampliandone la densità rappresentativa, dall’altro, proprio per la presenza fin dall’elezione di questo dualismo politico e istituzionale, ha contribuito a rendere originale quest’organo costituzionale, marcando così l’importanza del ruolo delle autonomie nell’elezione presidenziale (a mero titolo di esempio, basti pensare a quanto hanno pesato allora queste ultime nell’invitare il presidente Napolitano ad accettare una sua rielezione).

IN QUESTO QUADRO, la composizione della delegazione individuata dai Consigli regionali – dopo un antico dibattito che ha coinvolto anche la dottrina giuridica – si è progressivamente consolidata intorno al fatto che i delegati siano eletti dai consigli regionali, non tra i loro componenti.

Appare quindi francamente sorprendente che, ancora oggi, a vent’anni dalla riforma del Titolo V che, nel suo art. 114 parte proprio dai Comuni, cioè dai sindaci, per delineare l’architettura istituzionale della Repubblica (non a caso definita ‘delle autonomie’), non si prenda sul serio quell’articolo, consentendo quindi che si possa delegare per l’elezione presidenziale anche una persona esterna al Consiglio regionale, come un sindaco.

Eppure si tratta soltanto di una scelta politica, senza complesse procedure; che sarebbe tuttavia ben espressiva dell’alto valore simbolico-rappresentativo da dare al pluralismo istituzionale del nostro Paese, volutamente sviluppato, non a caso, nell’elezione di quella figura che rappresenta appunto l’unità nazionale della Repubblica.

Cosa si aspetta dunque a procedere?

Alcune Regioni, come l’Emilia Romagna di Stefano Bonaccini, si sono già dette favorevoli. Ma sono ancora troppe le gelosie politico-istituzionali, mentre invece sarebbe un’ottima occasione per dare un segno di consapevole maturità repubblicana da parte della politica.

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