Ancora un Sos per la ricerca clinica in Italia

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Ogni anno in Italia 35-40mila cittadini beneficiano di trattamenti innovativi, grazie ai trial di ricerca clinica. Ora però le cose rischiano di cambiare: con l’entrata in vigore del “Clinical Trial Information System”, il portale unico continentale per le sperimentazioni istituito dal nuovo Regolamento europeo, l’Italia rischia di veder ‘migrare’ all’estero numerosi studi.

E questo perché, dopo 8 anni dalla deliberazione della nuova normativa, il nostro Paese non si è ancora adeguato. Dopo il monito ieri di Farmindustria, oggi arriva l’appello di Foce (Federazione degli oncologi, cardiologi e ematologi).

I decreti delegati, necessari per colmare la distanza che separa l’Italia dagli altri Paesi che da tempo hanno armonizzato il proprio sistema con quanto stabilito dal Regolamento europeo, avrebbero dovuto essere emanati entro il 31 gennaio. E potrebbe servire ancora un anno per una nuova legge delega immediata (perché è scaduta la precedente) e i relativi decreti delegati.

“Sono trascorsi quasi otto anni dall’emanazione del Regolamento europeo, ma l’Italia rischia di restare ferma in una fase di transizione di un anno e sarà impossibile aggregarsi al resto del Continente quando il sistema sarà già consolidato – afferma Francesco Cognetti, presidente Foce – In questo modo perdiamo i vantaggi che derivano da sperimentazioni che vedranno escluso il nostro Paese e che prevedono un arruolamento ed una valutazione centralizzata identica per tutti i Paesi membri. Con conseguenze molto gravi per i nostri pazienti, che non potranno usufruire dei grandi vantaggi dell’innovazione prodotta dalla ricerca”.

“In base agli ultimi dati disponibili, nel 2019, in Italia, sono state autorizzate 672 sperimentazioni, 516 profit e 156 no profit. E i due terzi interessano complessivamente proprio le neoplasie, le malattie ematologiche e cardiovascolari, che tra l’altro producono di nuovo i due terzi della mortalità annuale nel nostro Paese. Il Regolamento segna un cambiamento epocale negli studi clinici, passando dalla gestione nazionale al coordinamento a livello europeo. Se il nostro Paese, come auspicato più volte dal Presidente del Consiglio Draghi, vuole ritrovare una competitività internazionale, deve inserire la ricerca scientifica come priorità massima nell’agenda governativa”.

Innovazione per i pazienti, ma anche fondi. Gli investimenti complessivi pubblici e privati in questo settore in Italia equivalgono a oltre 750 milioni di euro all’anno, di cui il 92% proveniente da finanziamenti di aziende farmaceutiche per studi profit. “La ricerca clinica è un motore di sviluppo economico e sociale, che può offrire un contributo importante al recupero dell’attuale crisi sanitaria – spiega Paolo Corradini, Vice Presidente Foce e presidente della Società Italiana di Ematologia – Vi sono poi ricadute positive per i fornitori di servizi e sull’occupazione, grazie all’impiego di profili professionali di elevata specializzazione”.

A ciò “vanno aggiunti i risparmi per il Servizio Sanitario Nazionale e per le singole strutture, in termini di erogazione a titolo gratuito dei farmaci sperimentali e di controllo, i cui costi sono interamente a carico delle aziende sponsor”. È stato stimato, soltanto nell’area dell’oncoematologia, un risparmio potenziale di circa 400 milioni di euro ogni anno e, quindi, valutabile per alcuni miliardi per tutto il sistema.

Ma dove è il problema? “Durante il primo anno di validità del Regolamento, gli sponsor hanno l’opzione di decidere se sottomettere le nuove sperimentazioni seguendo gli standard precedenti o in accordo con quelli aggiornati – spiega Guido Rasi, Past Executive Director dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema), ordinario di Microbiologia all’Università di Tor Vergata di Roma e Consulente del Commissario Figliulo per l’emergenza Covid-19 – Dopo il 31 gennaio 2023, tutte le sperimentazioni dovranno essere sottomesse secondo i nuovi standard. E gli studi ancora in corso dovranno passare ai nuovi criteri non più tardi del 31 gennaio 2025. Ma la competizione è già iniziata da tre settimane e noi ne siamo fuori. Altri Stati europei sono in realtà pronti da anni, con la precisa strategia di beneficiare degli studi che i Paesi in ritardo organizzativo non potranno svolgere”.

Insomma, dopo l’industria anche gli specialisti sottolineano il “forte ritardo” del nostro Paese, che “deve recuperare in fretta il terreno perduto, perché ricerca e innovazione portano miglioramenti della qualità dell’assistenza. Per recuperare ci vorranno anni ed investimenti. Essere stati pronti ora sarebbe stato a costo zero. L’intero ‘Sistema Paese’ rischia di restare ai margini in termini di finanziamenti, respiro internazionale e collaborazione con i grandi centri”, avverte Rasi.

Oltretutto “l’Italia è al vertice nel mondo per i risultati ottenuti nelle ricerche scientifiche, non possiamo perdere questo primato – evidenzia Walter Ricciardi, presidente del ‘Mission Board for Cancer’ dell’Unione Europea e consigliere scientifico del ministro della Salute per l’emergenza Covid-19   Gli ostacoli ancora da superare sono noti: troppi comitati etici, scarso coordinamento fra questi enti che agiscono spesso in base a protocolli differenti, tempi di autorizzazione e avvio degli studi eccessivamente lunghi, enormi differenze nei contratti per le sperimentazioni”.

“In Italia le sperimentazioni multicentriche e multinazionali sono le più frequenti, rappresentando circa il 65% del totale – spiegano Ciro Indolfi (vice presidente Foce e presidente Società Italiana di Cardiologia) e Francesco Romeo (segretario Foce) – Per questo è urgente l’adeguamento del ‘Sistema Italia’ ai requisiti del Regolamento europeo, partendo proprio dalla riorganizzazione dei comitati etici, riducendone anche il numero. Oggi sono circa 90, davvero troppi. È previsto che siano ridotti a quaranta e solo 3 siano quelli a valenza nazionale. Si tratta di una revisione dell’intero sistema della ricerca clinica di cui, a oggi, non vediamo traccia”.

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