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Saltalamacchia (Koelliker): La mobilità è un mercato in transizione

In che direzione sta andando il mondo delle automobili? “Siamo in un’economia di transizione. Ci sarà una progressiva evoluzione verso una nuova forma di mobilità”. A parlare è un protagonista del settore, Marco Saltalamacchia, la cui esperienza viene da lontano: ha ricoperto varie cariche in Renault nelle funzioni commerciali, marketing e after sales, in Fca nell’ambito flotte e corporate business e in Bmw, prima in qualità di presidente della filiale italiana e poi come Senior vice president region Europe; in Bmw Ag a Monaco di Baviera. Nel corso di queste esperienze ha acquisito una visione globale del business automotive che, dal febbraio 2021, ha messo al servizio del Gruppo Koelliker, di cui è diventato presidente. Partiamo da qui: cos’è oggi Koelliker, leader dell’importazione e vendita di automobili?

“Quello che è sempre stato”, dice Saltalamacchia. “Da un lato, storicamente, la levatrice sul mercato italiano per nuovi marchi destinati a crescere, a cui si aggiunge quella di House of brands: credo che la nostra azienda sia chiamata a presidiare il mondo della distribuzione automobilistica in modo originale. Nel mondo dei beni di consumo c’è una chiara differenza tra chi produce e chi vende, non è così nell’automotive: i costruttori avevano sempre mantenuto un elevato grado di controllo della propria distribuzione attraverso sistemi e processi per controllarla; oggi non è più vero”.

Come vede l’atteggiamento del consumatore nei confronti dell’adozione di powertrain alternativi? L’elettrico è uno di questi, ma ci sono i propulsori elettrificati, plugin, a idrogeno. La società Quintegia, attenta al business e all’ecosistema auto, ha appena pubblicato una ricerca multi-Paese dalla quale risulta da un lato molta voglia di adozione, ma allo stesso tempo anche molti freni non solo infrastrutturali ma anche economici e normativi di varia natura.

Siamo in un’economia di transizione. Sarà una progressiva evoluzione verso una nuova forma di mobilità, che non è solo questione di powertrain: abbiamo raggiunto il picco negativo di natalità con i neanche 400mila nati nell’anno scorso, quindi il numero di potenziali guidatori tra 18 anni è sempre più basso; poi cambiano gli atteggiamenti di chi è sempre vissuto in grandi metropoli dotate di grandi infrastrutture e non sente la necessità di avere un’auto, non c’è la stessa pulsione che abbiamo avuto per conquistare la nostra indipendenza. La nostra ambizione è quella di accompagnare questa transizione offrendo a ogni cliente la vettura che meglio si attaglia alle sue necessità, senza commettere l’errore di ideologizzare il dibattito attorno all’auto. Diventeranno più importanti altri elementi: se prendiamo Frecciarossa, valorizziamo la velocità con cui ci spostiamo, la qualità della vita a bordo, la comodità delle poltrone, il servizio che ci viene offerto, dove potremmo avere anche la possibilità di continuare a lavorare o fruire dell’intrattenimento. Poi ci sono i temi legati al problema del calo occupazionale, anche se è singolare che se ne parli oggi quando si parla di elettrico, ma non se ne sia parlato quando l’Italia è passata da produrre due milioni di auto a 400mila: quanti posti di lavoro si sono persi in quel caso?

Tuttavia, l’industria tedesca ha effettivamente stimato un calo occupazionale assai preoccupante.

La Germania esporta oltre il 60% di quello che produce. Il mercato potrà calare, ma se ragioniamo come sistema Paese, potremmo fare come i cinesi, che nel 2009 decisero che il termico non sarebbe stato il loro futuro e investirono al tempo due miliardi di dollari nello sviluppo dell’elettrico. Se si abbraccia una tecnologia il lavoro si crea, non si distrugge.

Insomma, l’industria sarà condizionata dagli atteggiamenti regolatori e di indirizzo dei Paesi, che nei fatti determineranno il futuro del comparto.

Per molto tempo si è sempre parlato della capacità di attrarre gli investimenti e creare occupazione: la California rispetto al Michigan non aveva nessuna vocazione automobilistica, però ha prodotto una realtà come Tesla.

Una realtà molto anomala rispetto alla norma e che non poteva che nascere lì.

Certamente, perché l’auto elettrica è più IT che meccanica: la California è contemporaneamente il paradiso degli ecologisti, perché non sono stati i primi a adottare normative antinquinamento severe, e ha la Silicon Valley. L’Italia, sapendo quanto è disruptive la tecnologia elettrica, potrebbe perdere un’opportunità. Anche la Germania dovrà occuparsi della sua riconversione, anche se è molto più facile usare gli investimenti partendo da zero che non smontare una cosa per poi rimontarne un’altra.

I tempi di adozione non saranno gli stessi: questo significa che i principali costruttori dovranno continuare a investire su più piattaforme tecnologiche; probabilmente i problemi infrastrutturali che ci sono, ad esempio, in Africa o in Asia faranno sì che non sarà possibile improvvisamente smettere di produrre auto endotermiche. I bilanci delle case ce la fanno a sostenere questa doppia fatica?

Va detto che un conto è l’affinamento di una tecnologia esistente e un altro è lo sviluppo di una nuova via. Il divario che oggi l’Occidente si trova a dover superare rispetto alla Cina è soprattutto un divario di natura IT: se guardo all’architettura complessiva del veicolo elettrico, le componenti hardware sono piuttosto semplici. La vera competenza è l’integrazione e consiste in quello che è il cosiddetto battery management system. È una bella sfida, che si giocherà tra le varie parti del mondo, bisogna capire quali saranno i Paesi che si candideranno naturalmente a dare una risposta a questo bisogno e in quei Paesi l’occupazione crescerà, non si ridurrà.

Ma la Cina è in vantaggio su questo terreno?

Almeno di cinque anni. C’è stata una chiara resistenza da parte dell’industria occidentale verso questo cambiamento tecnologico, dettata dal fatto che il costo di transizione sarebbe stato molto importante. C’è voluto il ‘diesel gate’ per cambiare le equazioni sulle quali soprattutto il mondo tedesco aveva costruito il proprio primato. Con i diesel sostanzialmente fuorilegge sono andati in difficoltà.

Un’ultima riflessione che credo sia d’attualità e che riguarda l’accessibilità: non è che forse nel mix dell’offerta, ci potrebbe essere spazio anche per una motorizzazione più popolare? La ricerca citata di Quintegia ha mostrato che una parte non trascurabile degli acquirenti potenziali non potrebbe permettersi il passaggio all’elettrico. E d’altra parte non possiamo andare avanti all’infinito con gli incentivi: altrimenti ci troveremo inevitabilmente nelle condizioni della Norvegia, dove gli incentivi hanno procurato un notevole quanto inaspettato buco nel bilancio statale. 

È normale e vale in qualunque settore che siano gli early adopter quelli che hanno maggiori capacità di acquisto. Ma ti rispondo in altro modo; una ricerca del Politecnico di Milano su tremila consumatori ha riscontrato che la percorrenza media del 90% è inferiore ai 100 km al giorno. In questo contesto non ho bisogno di riempire un’auto di batterie, visto che oggi mediamente valgono più del 50% sulla vettura, con costi sicuramente più accessibili.

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