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Cosa c’è dietro l’idillio (e l’influenza) tra Cina e America del Sud

Il petrolio venezuelano e dell’Ecuador, il litio di Cile e Argentina, il rame del Perù e il ferro del Brasile. La Cina per mandare avanti il suo potente sistema produttivo e industriale fagocita quantità immense di materie prime. E per quanto la rete infrastrutturale che Pechino ha rilanciato e allargato negli ultimi anni per connettere i suoi commerci con l’Eurasia e il Medioriente sia più conosciuta, ci sono altre rotte che la Cina cura da decenni con altrettanto dinamismo.

Sempre più attore globale, il Paese ha ampliato la posizione di mercato aprendosi a investimenti e scambi in aree del mondo che, tradizionalmente, sono state sotto altre sfere d’influenza. L’esempio tipico è quello dei Paesi dell’America del Sud che dall’800 in poi, per effetto della nota ‘dottrina Monroe’ portata avanti da Washington, hanno costituito un territorio quasi a esclusiva influenza statunitense, politicamente ed economicamente. Un orientamento non più predominante se oggi il flusso commerciale tra Pechino e Paesi latinoamericani è triplicato di volume in soli tre anni. Grazie a un boom di alleanze e accordi sanciti in trattati che hanno istituzionalizzato il libero scambio, eliminato vincoli tariffari e facilitato come non mai le relazioni economiche. Cile, Brasile, Venezuela, Colombia e diversi Paesi del centro-America sono oggi partner permanenti di Pechino, mentre una nuova geografia di rapporti commerciali sta ridisegnando la mappa dell’economia e della concorrenza in quella parte di mondo.

Come dicevamo, sono le materie prime a interessare la Repubblica popolare cinese. Che a sua volta può contare su un’ampia capacità di investimento, oltre che su una grande ambizione strategica, rendendo disponibili capitali per sviluppare in quelle aree infrastrutture, industrie, tecnologie. Così sta sostenendo Paesi che da anni sono attanagliati da instabilità politica, bassi cicli economici e inflazione, e che non di rado sono desiderosi di sottrarsi al giogo nord-americano. Un denominatore, questo ultimo, che accomuna persino governi molto poco filo-cinesi ma che non disdegnano i capitali della potenza asiatica quando servono a modernizzare i loro Stati. Vedi il Brasile, oppure il Venezuela che cerca di aggirare le sanzioni americane da cui è stato colpito e scambia volentieri il greggio, dirottandolo verso la Cina, in cambio di altri beni di cui ha bisogno.

Insomma, gli interessi sono reciproci ma una differenza c’è: Pechino ha una strategia a lungo temine, che altri non hanno, e possiede una metodologia da terzo millennio che mette le relazioni economiche in cima all’agenda di politica estera. Dunque, risulta un partner molto generoso offrendo opportunità di sviluppo in cambio di forniture di combustibili fossili o metalli che hanno impieghi importantissimi. Il rame, ad esempio, è un ottimo conduttore elettrico ed è fondamentale in elettrotecnica. Il litio si usa invece per le batterie dei veicoli elettrici, dei computer e degli smartphone, prodotti su cui colossi cinesi come Huawei fondano buona parte delle loro produzioni e la messa a punto di sistemi innovativi nell’High Tecnology.

“Se si vede la composizione degli scambi commerciali tra la Cina e i Paesi dell’America latina è evidente quanto l’accesso alle materie prime, di cui questi ultimi sono ricchi, rappresenti uno dei principali fattori che hanno spinto Pechino ad investire in quelle relazioni”, spiega Lorenzo Mariani, analista dell’Istituto affari internazionali. “Il volume degli scambi commerciali è cresciuto da 18 miliardi di dollari nel 2002 a 318 miliardi nel 2020. La composizione delle importazioni cinesi parla da sola: più della metà è data da materie prime come minerali (35%), combustibili (12%) e metalli come il rame (6%), mentre una parte sempre più rilevante dell’interscambio è occupata dai prodotti agricoli come soia e carne. Le opportunità per Pechino non si limitano solo alle importazioni. L’America Latina rappresenta un promettente mercato per l’esportazione di beni ad alto valore aggiunto, a partire dagli apparecchi tecnologici di largo consumo”.

Insomma, nonostante “l’instabilità politica di diversi Stati sudamericani non sia un fattore allettante per la Cina, che come ogni investitore è principalmente interessata alla sfera economica”, il Dragone ha puntato sulle nuove rotte. “Se ne parla poco”, dice Mariani, ma “le iniziative cinesi sugli investimenti infrastrutturali hanno raccolto numerose adesioni in quella regione. Ad oggi 21 Paesi dell’America meridionale e caraibica fanno formalmente parte della Belt and Road Initiative. L’ultima a essersi unita è stata l’Argentina a febbraio di quest’anno. La maggior parte degli investimenti cinesi si sono concentrati su progetti legati alla produzione energetica (59%) e all’estrazione mineraria (24%). Questo ad ulteriore prova di come gli investimenti cinesi siano sempre collegati agli interessi strategici di Pechino”.

Ma come hanno reagito Stati Uniti ed Europa di fronte alla penetrazione cinese nel continente americano? L’Istituto affari internazionali evidenzia che “la Cina rappresenta una fonte di investimento molto allettante perché i suoi finanziamenti sono condizionati a meno vincoli rispetto a quelli forniti dall’Occidente o dalle organizzazioni finanziarie internazionali. Un esempio fra tutti è la scarsa attenzione al rispetto delle norme ambientali. Che è allo stesso tempo uno dei punti deboli della strategia cinese. Sono molte le iniziative a guida occidentale lanciate nel corso degli ultimi anni che puntano ad offrire un’alternativa più sostenibile alla Via della Seta. Basti pensare al Global Gateway europeo e al Build Back Better World proposto da Joe Biden nel corso del G7 dello scorso anno”.

In questo scenario “resta però da capire quanto siano realistici tutti questi progetti in un mondo segnato da una profonda crisi della globalizzazione, per come l’abbiamo conosciuta fino ad ora”. Il conflitto russo-ucraino ha evidenziato la presenza di più ostacoli all’interconnessione di quanto per lungo tempo si fosse immaginato. Ne è testimonianza la posizione di Pechino nei confronti dell’aggressione russa dell’Ucraina dettata dalla volontà di non danneggiare il ‘blocco asiatico’ rispetto a Usa ed Europa. “E’ interesse della Cina riuscire a perdere quanto meno possibile in ognuno dei tavoli a cui siede in questo momento delicato”, chiarisce Mariani. “Il problema principale alla base della strategia cinese è quello di voler ottenere una soluzione che sia vincente a 360 gradi. Pechino si è chiaramente schierata dalla parte Russa evitando di condannare l’invasione di Putin, ma allo stesso tempo non vuole che ciò comprometta ulteriormente le proprie relazioni con Bruxelles e con i vari partner economici del Vecchio Continente. Tuttavia questo obiettivo è di giorno in giorno più irrealizzabile”.

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