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Materie prime e made in Italy, manca tutto tranne il riso

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La pandemia prima e il conflitto in Ucraina poi, hanno mostrato quanto l’Italia sia dipendente dall’estero per i cereali. Eppure, se si guarda alle esportazioni del Made in Italy  nell’agroalimentare, si scopre che  produciamo più di quanto consumiamo. Ecco perché. La versione completa di questo articolo è disponibile sul numero di Fortune Italia di aprile 2022.

Se vi chiedessero qual è il primo prodotto agroalimentare che produce l’Italia probabilmente rispondereste di getto il grano. E avreste ragione. Questo però non vuol dire affatto essere autosufficienti.

D’altra parte, è la storia che lo dimostra: nemmeno la famosa battaglia di mussoliniana memoria riuscì a centrare l’obiettivo. E in questi giorni di conflitto tra Russia e Ucraina abbiamo toccato con mano quanto siamo dipendenti dalle esportazioni e quanto tutto ciò incida sull’aumento dei prezzi. E non vale solo per il frumento, ma anche per altre materie prime alla base di molti prodotti del Made in Italy.

Paradossalmente, però, se si guarda all’interscambio di prodotti agrolimentari con l’estero, tra il 2020 e il 2021, l’Italia è passata da una condizione deficitaria a una eccedentaria. Vuol dire che produce più di ciò che consuma, cosa che non accadeva da circa un secolo. Il valore dell’export italiano nel settore agroalimentare lo scorso anno è stato infatti di 52 mld di euro, con un +9% rispetto al 2020.

Come si spiega questa apparente incongruenza? “Il dato delle esportazioni è dovuto sostanzialmente alla vendita dei prodotti alimentari trasformati e ancor di più alle bevande, in particolare il vino e gli spumanti”, dice Roberto Pretolani, docente di Economia agraria all’Università degli Studi di Milano. Secondo le elaborazioni dell’osservatorio Qualivita Wine su dati Istat, emerge che nel 2021 la vendita di vino ha superato i 7 mld di euro con un’impennata degli spumanti . “Per dirlo in una frase – spiega ancora Pretolani – noi esportiamo prodotti che però vengono realizzati a partire da materie prime che sono in parte importate”.

Ovviamente, il conflitto avrà un peso anche su questa voce della bilancia commerciale. Il Crea, il più importante ente italiano di ricerca dedicato all’agroalimentare, ha analizzato l’impatto sull’export. “Nel 2022 l’Italia stimava di esportare in Russia oltre 600 milioni di euro di merci e con ogni probabilità ciò non avverrà”, spiega il presidente, Carlo Gaudio. Secondo le loro valutazioni, i comparti più colpiti saranno proprio: vini e bevande (-205 mln di euro l’anno), pasta e derivati dei cereali (-67 mln), caffè torrefatto (-58 mln) e cibo per cani e gatti (- 50 mln). D’altra parte, secondo un’analisi di Coldiretti, l’Italia compra dall’estero – e in particolare proprio da Ucraina e Russia – il 64% del grano tenero, quello necessario a fare per esempio pane e biscotti.

Diverso il discorso per il grano duro, ossia quello utilizzato per produrre la pasta, per il quale dipendiamo dall’estero per il 44%, ma solo in piccola parte dai due Paesi in conflitto. Anche se ci sono aziende che hanno scelto di rivolgersi al 100% al mercato italiano. A questi vanno aggiunti il mais e la soia, fondamentali per l’alimentazione degli animali e dunque per formaggi e salumi Dop famosi nel mondo, come i due grana o i prosciutti. In questo caso, le produzioni nazionali, già prima del conflitto, riuscivano a coprire rispettivamente solo il 53% e il 73% del fabbisogno interno.

Insomma, se parliamo di cereali l’Italia è dipendente dall’estero. E questo vale per tutti. Tutti, tranne uno: il riso. Come emerge dai dati forniti dall’Ente nazionale risi, infatti, in Italia la produzione del 2021 si è attestata a circa 1.465.000 tonnellate di risone che corrispondono più o meno a 900mila tonnellate di riso lavorato. Se il consumo interno si aggira sulle 400mila tonnellate, quelle esportate sono invece 650mila, di cui 500mila negli altri Stati dell’Ue. Questo vuol dire che c’è una importazione di 150mila tonnellate, ma anche che l’Italia produce più riso di quello che le serve. “Siamo esportatori netti, anche perché – spiega ancora Pretolani – abbiamo varietà che si differenziano rispetto a quelle del mercato mondiale. Per quanto riguarda il nostro riso a chicco tondo, delle cosiddette varietà japonica, siamo fortemente eccedentari ma comunque competiamo anche su quelle che vengono chiamate di tipo ìndica, a chicco lungo”.

La versione completa di questo articolo è disponibile sul numero di Fortune Italia di aprile 2022. Ci si può abbonare al magazine di Fortune Italia a questo link: potrete scegliere tra la versione cartacea, quella digitale oppure entrambe. Qui invece si possono acquistare i singoli numeri della rivista in versione digitale.

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