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Musk compra Twitter. Ecco perché la questione ci riguarda tutti

Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, dopo averne comprato qualche settimana fa il 9% ha poi completato l’acquisizione di Twitter. Ha anche annunciato di voler far scendere la società che gestisce il social network dalla giostra della borsa e dei mercati finanziari globali.

La notizia tiene banco, giustamente, da settimane sulle prime pagine dei grandi quotidiani finanziari.

Non capita tutti i giorni una scalata individuale di questo tipo – l’offerta di Musk a Twitter vale, circa 44 mld di dollari – specie se ha per oggetto una società la cui fama e centralità nell’universo mediatico globale sono superiori alla sua produttività finanziaria.

Twitter, infatti, a dispetto del fatto di essere entrata in fretta nel firmamento delle big tech stenta, a differenza delle sue concorrenti, a identificare un modello di business capace di soddisfare davvero gli investimenti e gli appetiti dei suoi azionisti.

Ma, sin qui, la questione, per quanto importante, meriterebbe di restare confinata nell’universo delle cose della finanza.

E, invece, ci riguarda tutti, riguarda la società nella quale viviamo, la fragilità della libertà di parola sulla quale si fondano le nostre democrazie, le nostre vite, la nostra educazione e, naturalmente, anche i nostri mercati.

Perché Musk nel lanciare la sua offerta, dice, senza tanti giri di parole, di voler comprare Twitter per renderla una piattaforma più rispettosa della libertà di parola degli utenti. Quindi in grado di consentire a chiunque di dire quel che pensa senza correre il rischio di essere oscurato e magari condannato all’ostracismo digitale, come accaduto l’anno scorso addirittura a Donald Trump, all’epoca, anche se ancora per poco, presidente in carica degli Stati Uniti d’America.

Ecco perché la scalata di Musk a Twitter ci riguarda tutti da vicino.

L’operazione, aspetti finanziari a parte, sottolinea lo strettissimo rapporto esistente tra i mercati finanziari e la libertà di parola in tutto il mondo.

Certo, l’intreccio, tra mercati finanziari, media e libertà di parola non è né nuovo, né originale.

Giornali, radio e televisioni rappresentano da sempre, in tutto il mondo, Italia inclusa, oggetto del desiderio di tycoon della finanza e dell’economia e, da sempre, questi ultimi, dopo averne conquistato il controllo in borsa li utilizzano per condizionare, in un modo o nell’altro, l’opinione pubblica.

Nel caso di social network globali delle dimensioni di Twitter, il fenomeno è più serio di diversi ordini di grandezza. Controllare uno di questi giganti vuol dire essere nella posizione di plasmare, più o meno a proprio piacimento, l’opinione pubblica globale, portandola a trovare giusto o sbagliato tutto o il contrario di tutto con effetti indeterminabili e incontrollabili sulle cose dei mercati, della politica, della cultura e della società.

Perché, senza troppi giri di parole, bisogna riconoscere che sedere nella stanza dei bottoni di uno di questi giganti permette di decidere quali contenuti lasciar circolare di più o, addirittura promuovere, quali far circolare di meno e quali non far circolare affatto.

O, anche, a chi lasciare il diritto di parlare a centinaia di milioni di persone, miliardi talvolta, e chi invece privare di questo diritto.

Il punto, quindi, non è – e non dovrebbe essere – la scalata di Musk renderà Twitter più o meno rispettosa della libertà di parola di quanto lo sia oggi, ma il fatto che la misura della libertà di parola della quale dispongono miliardi di persone nel mondo oggi dipende più dai mercati finanziari che dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite o che dalle Carte Costituzionali dei Paesi nei quali viviamo.

Il diritto di ciascuno di noi di pensare, dire, scrivere e leggere ciò che ritiene senza divieti né condizionamenti (che non siano indispensabili per difendere i diritti e le libertà di qualcun altro e, comunque, nei soli limiti, previsti dalla legge), è troppo importante per essere lasciato alla mercé dei mercati azionari.

Le nostre democrazie, la nostra società, la nostra cultura, il nostro modo di pensare, la nostra libertà di scelta negli ambiti più diversi, dai mercati alla politica, vanno sottratte alla liquidità, volatilità, magmaticità dei mercati finanziari e di chi, di volta in volta, li controlla.

Anche perché Twitter & C., ormai, sanno troppo su di noi e sono in grado di usare quello che sanno, per indurre ciascuno di noi a dire, fare e pensare più o meno quello che chi, di volta in volta li controlla, ha interesse a che noi si dica, si faccia o si pensi.

E, big data, algoritmi e intelligenza artificiale sono destinati a amplificare a dismisura questo scenario.

Quindi, che la soluzione sia scongiurare il rischio che una manciata di persone o società abbiano, di fatto, il controllo di uno qualsiasi di questi mezzi di condizionamento di massa dell’opinione pubblica globale o, invece, limitare il potere di questi giganti dell’informazione globale di decidere chi ostracizzare dall’agorà digitale e chi lasciarvi parlare, il problema va affrontato senza ulteriori indugi.

In fondo, davanti al sistema mediatico tradizionale, ci siamo sempre preoccupati di evitare – anche se non sempre con eguale successo e, anzi, talvolta registrando macroscopici insuccessi – il formarsi di concentrazioni incompatibili con il pluralismo dell’informazione e abbiamo sempre difeso il principio secondo il quale tocca solo ai giudici e alle autorità, peraltro in casi del tutto eccezionali, il potere di decidere di privare qualcuno del diritto di parola o di ordinare la rimozione di un contenuto.

Non c’è ragione perché analoghe preoccupazioni non debbano guidarci nel governo dell’ecosistema mediatico digitale, oggi condizionato da oligopoli informativi davanti ai quali i più grandi imperi mediatici di ieri impallidiscono.

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