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Il prezzo giusto della pizza

Si può vendere una pizza a 60 euro? Certamente sì, se le esigenze dell’offerta – la pizzeria e la sua proposta complessiva, che comprende quel che c’è nel piatto, ma anche tutto il “contorno” – e quelle della domanda – i clienti, e la loro propensione all’acquisto – si trovano in sintonia; se sia giusto o meno, eticamente corretto oppure no, motivato dai costi di produzione e servizio oppure speculazione eccessiva, possono stabilirlo solo i due attori della transazione.

Forse, come è stato rilevato da molti – lo spunto della discussione che ha riempito i media italiani nelle scorse settimane è stata l’apertura romana dell’insegna Crazy Pizza di Flavio Briatore, dove la Margherita costa 15 euro e quella con il pregiato prosciutto iberico Pata Negra arriva a 65 euro – bisognerebbe chiedersi soprattutto se sia possibile vendere una pizza (per quanto semplice, come la Margherita appunto o la Marinara) a soli 4 euro. È uscita di recente una classifica delle migliori pizzerie italiane dove quella di Briatore non è presente.

La crescita qualitativa del comparto pizza negli ultimi dieci anni – che ha visto arrivare le pizzerie nell’empireo della critica gastronomica e alcuni pizzaioli diventare vere e proprie star, ma anche i clienti farsi sempre più esigenti e competenti – ha ormai sdoganato il mito dell’anima popolare e democratica a tutti i costi di questo cibo. O meglio: tale resta, nella maggiore parte dei casi, dando modo alla gran parte delle persone e delle tasche di concedersene il piacere una volta ogni tanto. Tuttavia questo senza accettare compromessi sulla qualità minima, che vuol dire un impasto con il giusto tempo di lievitazione, delle materie prime dignitose, ma pure pagamenti rispettati, personale in regola e fiscalità trasparente. Perché le voci dietro al costo della pizza sono tante, alcune meno evidenti di altre agli occhi del consumatore.

Così, se da più parti si sono levate grida di scandalo per i prezzi del locale di Briatore (che a Roma è in via Veneto, e prevede anche cocktail signature e dj set), la difesa a oltranza della tradizione non è sempre motivata, e va contestualizzata al luogo e al tipo di proposta specifico di ogni locale. Una delle risposte più efficaci – per quanto, o forse proprio perché, silente – alla querelle Crazy Pizza l’ha data Franco Pepe che nel suo Pepe in Grani (pizzeria con servizio da ristorante che ha letteralmente ridato vita al paesino casertano di Caiazzo) continua a servire Marinara e Margherita rispettivamente a 5 e 6,5 euro – ancora di meno per la tradizionale pizza a libretto, ripiegata su sé stessa e servita nella “stufa”, che volendo fa da divertente inganno nell’attesta del resto – fino ai circa 15 euro delle pizze più complesse, ma che applica dei sovrapprezzi a persona per la scelta di sale e tavoli riservati e con servizi aggiuntivi, rendendo così l’esperienza in pizzeria cucita addosso a esigenze e disponibilità di ciascuno.

Per Matteo Aloe – che insieme al fratello Salvatore ha dato vita nel 2010 al brand di pizzerie Berberè, che oggi conta 15 locali in diverse città italiane e una sede londinese che presto raddoppierà – il “prezzo giusto” della (loro) pizza è quello che hanno individuato e che permette al gruppo di crescere e di soddisfare una clientela sempre più numerosa. “Quando abbiamo aperto, 12 anni fa, con la Margherita a 7,5 euro, eravamo tacciati di essere cari. Oggi l’abbiamo portata a 8 – IVA inclusa, una voce che non va sottovalutata! – ma ormai è un prezzo normale per le grandi città”, spiega Aloe.

“Scegliamo di avere lo stesso prezzo per ciascuna pizza nei locali delle diverse città, e abbiamo uno scontrino medio a persona di 15,5 euro. La pizza più cara in menu, con salumi di pregio, arriva a 13 euro, ed è quella su cui abbiamo un margine minore di guadagno. Per noi va bene così: se applicassimo prezzi più alti saremmo fuori dal mercato delle pizzerie, se fossero più bassi non rientreremmo dei costi che, oltre alle materie prime – che per noi non devono rappresentare oltre il 25% del costo complessivo della pizza – si basano anche sul personale, le bollette, l’affitto, le tasse. E per una pizza come la nostra, con impasto a lievitazione naturale, il lavoro che c’è dietro è maggiore. Poi certo, le cose cambiano anche in base a che numeri si fanno, al “giro” dei tavoli che si riesce ad avere e al tipo di servizio che si offre: se si ha un locale che lavora tanto, con un ricambio veloce, senza servizio al tavolo o prenotazione e accoglienza, con una scelta minima di bevande e magari anche senza aria condizionata, si può arrivare pure a vendere una pizza 5 euro. Così come, se invece si offre un servizio più vicino al ristorante che alla pizzeria, è normale che i prezzi salgano”. E quello di Crazy Pizza non è certo un unicum: da anni Simone Padoan nel suo locale I Tigli a San Bonifacio (Verona) ha in menu pizze a due cifre abbondanti – per esempio la Sashimi di Gambero… datterino fermentato, cetriolo, gambero rosso e la sua bisque, a 49 euro) ma in quel caso la bontà e complessità del cibo, la cantina fornita e il servizio attento rendono vana ogni polemica.

La formula di Berberè per mantenere accessibili i costi – e “continuare a giocare nel campionato delle pizzerie”, come dice Matteo, che per lui deve rientrare in una spesa massima pro capite di 20 euro per lo meno in Italia e anche a Londra, mentre in altri Paesi come USA o Giappone le cose cambiano – sta soprattutto nello scegliere location dagli affitti non troppo alti. Nessun compromesso invece sulla qualità degli ingredienti – una voce che è anzi cresciuta negli anni, continuando a ricercare prodotti e fornitori di alto livello – e tanta attenzione alla squadra e alla soddisfazione dei collaboratori, elemento essenziale della crescita del brand. “Per chi, come noi, lavora a livello artigianale è difficile pensare di fare economie di scala. L’unica cosa sui cui, aumentando il numero di locali, siamo riusciti a tagliare un po’ i costi è la logistica, ottimizzando consegne e forniture”. Un risparmio importante – senza tradire la filosofia del gruppo, da sempre attenta alla sostenibilità – lo hanno avuto scegliendo di rinunciare ai tovaglioli di stoffa (e dunque alle spese di lavanderia) a favore di quelli usa e getta in fibra di bambù, biodegradabili. “Quello che ci spaventa, al momento, sono gli aumenti generalizzati che vediamo dall’inizio dell’anno: dall’energia al fiordilatte. Per ora li abbiamo assorbiti noi ma se continua così dovremo aumentare il prezzo delle pizze, anche se di poco, portando ad esempio la Margherita a 8,5 euro. Anche perché, con l’inflazione, dovremo aumentare pure gli stipendi al personale”.

Dice la sua sul “prezzo giusto” della pizza anche Ciro Salvo, super premiato pizzaiolo napoletano, maestro dell’impasto digeribile e leggero, ma anche imprenditore insieme al socio Alessandro Guglielmini: hanno da poco inaugurato la sede romana della pizzeria 50Kalò dopo quelle di Napoli e Londra, tutte sempre pienissime. “L’errore che fanno in molti è quello di analizzare il costo della singola pizza, sommando materie prime e ingredienti per esempio della Margherita, e calcolare così il margine di guadagno pensando che i pizzaioli si arricchiscano chissà quanto. In realtà il calcolo di uno scontrino medio di ogni singolo coperto va fatto analizzando il complesso dell’offerta e dei costi: si parte dalla percentuale di utili che ci si prefigge – in genere non altissima, ma che può crescere facendo grossi numeri – e da lì si calcolano poi le percentuali delle varie voci di costo. La materia prima, per una pizzeria che lavora sulla qualità, non dovrebbe superare il 25-30%: la voce più alta insieme al personale e alle tasse”.

I prezzi di 50 Kalò sono assolutamente popolari – ma leggermente sfalsati nelle diverse città, anche tenendo conto degli affitti differenti e soprattutto dello spostamento di prodotti e personale, sempre partenopeo. La Margherita costa 6,5 euro a Napoli e 8 a Roma – a fronte di un livello eccellente, anche per quel che riguarda il servizio. In questo caso, il segreto, è un sistema super efficiente e virtuoso: Ciro e le sue squadre lavorano senza sosta e con grande entusiasmo, riuscendo a reggere numeri importanti mantenendo alta la qualità. Questo si traduce in incassi e fatturati alti, ma anche in acquisti di prodotti per i tre locali in quantità tali – e con pagamenti immediati – da garantire scontistiche importanti. E a loro volta, i margini di guadagno vengono ridivisi anche sul personale, garantendo stipendi adeguati e aumenti calibrati su fatturato e costo della vita, e dunque soddisfazione e dedizione del personale. Un’altra parte la giocano la grande attenzione a evitare gli sprechi e, infine, il carisma personale di Ciro e la sua reputazione: per alcuni prodotti selezionati – per esempio il pomodoro e le conserve dell’azienda campana Casa Marrazzo – lui diventa un vero e proprio brand ambassador, con condizioni di fornitura privilegiate ripagate dalla pubblicità che ne fa. A cominciare dall’utilizzo sulle sue pizze strepitose.

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