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Disciplina dei licenziamenti: ritorno alle origini?

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Maurizio Santori

Maurizio Santori

Maurizio Santori, Giuslavorista Studio Pessi e Associati

In principio c’era il Totem. L’inavvicinabile e indiscutibile tutela reale del posto di lavoro dettata dall’art. 18 della Legge n.300/70. Come frutto delle lotte operaie della fine degli anni Sessanta, e comunque in un contesto ad elevato tasso di crescita del PIL, lo Statuto dei Lavoratori ha introdotto nel nostro ordinamento – oltre alle altre norme che invero hanno complessivamente comportato un necessario cambio di passo sul piano dei diritti sindacali e dei lavoratori del nostro Paese – il principio, tanto semplice quanto tranchant, in base al quale ogni licenziamento illegittimo, a prescindere dalle ragioni dell’illegittimità, deve essere sanzionato (per via giudiziaria s’intende), mediante l’annullamento e la conseguente reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato.

A tale effetto di tipo ‘reale’ si aggiungeva la condanna del datore di lavoro a tutte le retribuzioni dovute dal dì del recesso fino alla effettiva reintegra, oltre al versamento di tutti i contributivi previdenziali, così da determinare un’esposizione economica per l’imprenditore potenzialmente illimitata e, in caso di inottemperanza all’ordine di reintegra, senza alcuna controprestazione lavorativa.
Una vera debacle per l’azienda che doveva fare i conti con la singolare consapevolezza di aver contratto un vincolo indissolubile, ad onta del generalissimo principio di civiltà giuridica secondo cui non esistono vincoli contrattuali perpetui, e, come se non bastasse, per effetto – ironia della sorte – di una legge (la L. n 300/70, appunto) entrata in vigore nello stesso anno in cui in Italia fu legalizzato il divorzio.
Ebbene tale status quo, dopo più di 40 anni, è stato intaccato significativamente dapprima dalla Riforma Fornero e, poi, dal Jobs Act.

La prima riforma del 2012 ha modificato l’art. 18, limitando l’effetto della reintegra nel posto di lavoro fondamentalmente in 4 casi:

  • licenziamento discriminatorio o ritorsivo o per motivo illecito determinante;
  • insussistenza del fatto contestato al lavoratore posto a base del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo;
  • qualora il CCNL prevedesse una sanzione conservativa del posto di lavoro (ad esempio multa o sospensione dal servizio e dalla retribuzione) per l’infrazione posta invece a base del recesso;
  • manifesta insussistenza del fatto posto a giustificazione del licenziamento economico (adottato, cioè, per giustificato motivo oggettivo).

Nello stesso solco riformatore, tre anni più tardi, l’insieme degli interventi legislativi, noto con il nome riassuntivo di Jobs Act (in particolare il D.Lgs n. 23/2015), ha comportato un’ulteriore flessibilizzazione della vicenda risolutiva del rapporto di lavoro.
Il nuovo schema sanzionatorio è stato infatti caratterizzato dal meccanismo delle così dette ‘Tutele crescenti’: una vera e propria rivoluzione Copernicana comportante un drastico mutamento dell’angolo di visuale nella delicata materia dei diritti dei lavoratori contro i licenziamenti illegittimi.

Siamo di fronte a una fondamentale inversione concettuale, lo spirito della legge muta la sua essenza: quello che prima era una regola diventa un’eccezione e viceversa; di tal che la disciplina della tutela contro i licenziamenti illegittimi diviene in via generale indennitaria, mentre la reintegrazione in servizio si riduce ad eccezione. Tal’ultima conseguenza di tipo ‘reale’, secondo il Jobs Act – che è bene ricordare si applica solo ai lavoratori assunti dopo il 7/3/2015 mentre per i vecchi assunti si applica l’art. 18 St. Lav. riformato, come visto sopra, dalla legge Fornero – è stata infatti ulteriormente limitata a soli due casi:
• licenziamento discriminatorio o ritorsivo o per motivo illecito determinante;
• insussistenza del fatto contestato al lavoratore e posto a base del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.

Per tutti gli altri casi operano appunto le tutele crescenti che prevedono la sola indennità risarcitoria commisurata a 2 mensilità per ogni anno di anzianità di servizio del lavoratore, con un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità (poi elevate nel range da 6 a 36 mensilità dal c. d. Decreto Dignità).

Ebbene, si può dire che il processo di destrutturazione per via giudiziaria della riforma della disciplina dei licenziamenti – iniziata con la riforma Fornero (che ha operato sull’art. 18 St. Lav.) e proseguita dal Jobs Act (che ha operato con il D. Lgs. 23/15 per gli assunti successivamente al marzo del 2015) – ha preso le mosse proprio dalla pronuncia di illegittimità costituzionale delle ‘Tutele crescenti’. Evidentemente la riforma si era spinta troppo oltre rispetto al pluridecennale assetto legale – e correlativamente, giurisprudenziale – formatosi in materia e non ha superato il vaglio costituzionale. E così è accaduto che la sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 ha dichiarato incostituzionale il meccanismo delle tutele crescenti per irragionevolezza del riferimento esclusivo all’anzianità di servizio e per l’inidoneità a rappresentare un valido deterrente contro i licenziamenti illegittimi.

Sul medesimo abbrivio, la sentenza della Corte Costituzionale n. 150/2020 ha dichiarato incostituzionale, sempre per la desunta scarsa deterrenza e per irragionevolezza del criterio della sola anzianità di servizio, l’art. 4 del D.Lgs. n. 23/2015 (facente parte del Jobs Act) nella parte in cui prevedeva, in caso di vizi procedurali o di motivazione del recesso, l’indennità risarcitoria di una mensilità per anno lavorato.
A seguito di queste sentenze, il Giudice del Lavoro oggi può graduare a sua discrezione – in base sì a dati storico-fenomenici riguardanti sia il soggetto datoriale che il lavoratore, ma rimessi pur sempre alla sua autonoma ponderazione valutativa – l’indennità risarcitoria, variandola da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità, senza più poterla ancorare al solo dato oggettivo dell’anzianità di servizio. Ciò ovviamente qualora non operi la reintegra nei casi estremi che abbiamo sopra enunciato alla stregua delle due fonti principali: l’art. 18 St. Lav. per gli assunti antecedentemente al 7 marzo 2015 e il D. Lgs n. 23/2015 (Jobs Act) per gli assunti successivamente a tale data.
Ebbene, dopo tale primo colpo al cuore al sistema così strutturalmente riformatore in cui, sul piano ontologico, si invertivano le posizioni di regola e di eccezione, è ulteriormente intervenuta la Corte di Cassazione con due recenti decisioni collocabili entrambe entro il medesimo alveo motivazionale e, forse, teleologico. La tendenza sembrerebbe essere quella di estendere, mediante procedimenti ermeneutici invero al confine estremo del ruolo nomofilattico proprio della Suprema Corte, la casistica delle fattispecie astratte che comportano la reintegra in servizio. Si sta assistendo, in altri termini, ad una lenta polverizzazione delle riforme (in assetto duale: Riforma Fornero e Jobs Act) mediante un retrospettivo attraversamento del deserto che parrebbe tendere alla riscoperta del totem perduto degli anni 70.

Vediamo in particolare cosa è avvenuto. Con l’ordinanza. n. 11665/22 del 11/4/22 la Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui va disposta la reintegra del lavoratore anche quando il contratto collettivo preveda le ipotesi di applicazione di sanzioni conservative del posto di lavoro in modo non specifico e tipizzato (e quindi mediante clausole generali del tipo: svolgere il lavoro con negligenza o con scarsa diligenza). In tal modo il Giudice può effettuare una valutazione discrezionale relativa alla proporzionalità e gravità della condotta contestata, di fatto contraddicendo il carattere eccezionale della tutela reintegratoria voluto dagli interventi riformatori. La seconda pronuncia, sempre di aprile 2022 è la n. 13063 e afferma, nel medesimo indirizzo della precedente, che se il Contratto collettivo prevede una sanzione più tenue (e dunque conservativa) per un fatto più grave di quello che ha determinato il licenziamento, il lavoratore deve essere reintegrato.

Entrambe le decisioni affermano qualcosa che la legge non prevede. Con tutto il dovuto rispetto per ogni sentenza passata in giudicato, sembra tuttavia che tali decisioni tendano ad una funzione additiva più che ermeneutica, con la specifica conseguenza di determinare un’estensione dello spettro valutativo del Giudice in ordine alla maggiore o minore gravità dell’inadempimento addebitato al lavoratore. E ciò nonostante le riforme avessero espressamente espunto il criterio della proporzionalità tra fatto commesso e sanzione al fine dell’applicazione o meno della tutela reintegratoria. In merito ai licenziamenti economici è stata poi la volta della Consulta che, con la sentenza n. 125/2022, ha eliminato l’avverbio “manifestamente” in relazione all’insussistenza del fatto posto a base del recesso. Quindi oggi in caso di situazione tecnico produttiva e organizzativa poco evidente, magari perché di difficile dimostrazione in sede giudiziale in ragione della complessità della ristrutturazione aziendale che abbia portato alla soppressione del posto di lavoro, un licenziamento
per giustificato motivo oggettivo potrà essere annullato con conseguente reintegra in servizio del lavoratore, proprio come 50 anni fa.
Vogliamo concludere però in modo ottimistico, auspicando il giusto contemperamento degli interessi di rango costituzionale in gioco (diritto al lavoro e libertà di impresa) muovendo con rinnovata fiducia proprio dalla ancor più recente sentenza della Corte Costituzionale emessa in questa bollente estate. Secondo la Consulta le norme dettate in materia di licenziamenti – sia che si tratti della legge Fornero sia che riguardi il Jobs Act -sono risultate, come visto, inadeguate in difetto, così rendendosi necessario un intervento del Legislatore che individui nuovi criteri di quantificazione dell’indennità risarcitoria non ancorati soltanto all’elemento dell’anzianità di servizio o a quello delle dimensioni dell’azienda.

Il suggerimento della Corte Costituzionale, espresso con questa sentenza n. 183 del 22 luglio è nel senso che la Legge tratteggi, in futuro, criteri distintivi più duttili e complessi che si raccordino alle differenze tra le varie realtà imprenditoriali e ai contesti economici e organizzativi diversificati in cui esse operano. Ecco dunque, a sorpresa, un autorevolissimo spunto, tanto inaspettato quanto condivisibile, di grande saggezza prospettica: non un percorso restauratore appiattito sul principio della reintegra necessitata estesa a tutti i casi di licenziamento illegittimo, bensì un inasprimento delle indennità risarcitorie razionalmente modulato in base a dati oggettivi, riferibili sia al prestatore che al datore di lavoro, che abbia il pregio della certezza delle conseguenze giuridiche in funzione, da un lato, di adeguato deterrente per le imprese e, dall’altro, di adeguato ristoro per equivalente economico del danno subito dal lavoratore.

 

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