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Ciò che l’Antartide può insegnare alle aziende: intervista a Chiara Montanari

Nomen omen: nel nome (e cognome) è scritto il destino. E ‘Chiara Montanari’ fa subito pensare al ghiaccio. Anche se, confessa a Fortune Italia “da piccola le mie vacanze preferite erano al mare”. Fin da quando si è ritrovata per la prima volta al Polo Sud – quasi per caso con una tesi di laurea in ingegneria civile – la prima italiana a capo di una spedizione nell’estremo punto meridionale dell’asse terrestre è stata costretta a sviluppare la ‘mentalità antartica’. Ci sono poche cose al mondo più sfidanti e pericolose, secondo Montanari, del trovarsi nel gelo polare con una missione scientifica da compiere e una squadra eterogenea da coordinare. Per questa ragione, portare l’antarctic-mindset all’interno delle aziende, potrebbe rappresentare la grande sfida dei leader del futuro. Incentrata su ricerca, sostenibilità e – parola magica – consapevolezza. Perché dal freddo abbiamo se non tutto, molto da imparare.

Chiara Montanari, mi fa sorridere ricordare che prima di questa intervista ci siamo conosciute a una lezione di yoga. In cui eravamo all’aperto e si moriva dal freddo, appunto. Lei è sempre stata amante delle temperature sotto zero?

No, in realtà io adoro il mare. Ma tra l’Antartide e il mare ci sono tanti punti di contatto, perché quel che vedi di fronte al plateau antartico, quando sei in cima alla calotta polare, è molto simile all’orizzonte. Non c’è nulla per chilometri: solo una distesa immensa, bianca e immobile. La vastità. E io di questa vastità ho subìto il fascino.

Come è finita tra i ghiacciai antartici?

Ci sono finita per la tesi di laurea. Ingegneria civile, specializzazione sostenibilità. Allora non era un tema di interesse nelle agende delle aziende. Ma scelsi di sviluppare un progetto di riscaldamento per la base italiana che si trova nella zona della baia di Ross: un progetto a risparmio energetico, naturalmente. Non potevo immaginarlo, ma fui selezionata e decisero di realizzarlo. Dopo un anno e mezzo ero in Antartide. È stato amore a prima vista: pur di restarci, mi sono inventata un mestiere, ossia l’interface manager tra logistica e scienza in una base in costruzione, che allora era la Concordia (la stazione italiana in Antartide a 3300 m di altitudine e a 1200 km dalla costa). Anche se non è stato sempre facile, ed è per questo che a un certo punto sono arrivata a sviluppare l’antarctic-mindset.

Cioè?

Cioè la capacità di creare prosperando nell’incertezza. Immagina di dover condividere uno spazio limitato (una stanza misura quanto la cuccetta di un treno), stare a 4000 metri di altitudine (non riuscendo neanche a respirare per mancanza di ossigeno). Oltre al fisico sotto stress, devi realizzare insieme ad altre persone diversi progetti con le sole risorse a disposizione. Organizzare la vita quotidiana a Concordia non è semplice: dall’approvvigionamento di viveri, materiali, carburante all’imprevedibilità del meteo. C’è la lontananza da casa e dagli affetti, la gestione delle emergenze logistiche e sanitarie e l’inevitabile conflittualità che esse generano. È un ambiente che ti carica di imprevisti. Per quanto tu possa essere esperto, di fronte a qualcosa di ‘incerto’ come l’Antartide diventi incerto anche tu. Ma questa può trasformarsi in una grande opportunità.

Perché?

Perché l’incertezza può essere positiva. Noi ci focalizziamo solo sull’aspetto negativo, non ci rendiamo conto che alcune situazioni ci obbligano a un risveglio, a mettere energia nel presente. Tendiamo a guidare le nostre giornate col pilota automatico e riduciamo il nostro livello energetico. L’incertezza è un’occasione per mettere in moto la creatività. Vale in ambito aziendale e personale.

A proposito di aziende, nel 2018 ha fondato insieme al filosofo della scienza Gianluca Bocchi, ‘Complexity Aware’: per le aziende interessate a risvegliare il cosiddetto approccio antartico. Quali sono, secondo lei, gli errori più comuni nella gestione di un’azienda?

La mancanza di un senso. In un team ha più importanza creare un senso, non un obiettivo. Un senso che va riformulato continuamente perché la realtà cambia. Io faccio sempre l’esempio dei jazzisti. Noi progettiamo in Europa, poi andiamo in Antartide e per una serie di circostanze dobbiamo improvvisare. È quello che fanno i jazzisti: si preparano moltissimo con tante prove, e poi vanno sullo stage. E fanno un’esibizione pazzesca perché c’è stato tanto studio dietro. L’approccio antartico è uno strumento utile per gestire l’inaspettato. L’Antartide ridimensiona in qualche modo la nostra arroganza scientifica, perché la natura è molto più grande anche rispetto alle tecnologie più avanzate che abbiamo a disposizione. Le organizzazioni e le persone che intraprendono un percorso di antarctic-mindset hanno capito che nel mondo attuale non si possono sviluppare tutte le competenze necessarie. La preparazione è fondamentale, ma da sola non basta. Quando da ingegnere, sono diventata capo delle missioni polari, ero pronta sia tecnicamente che fisicamente. Eppure ogni missione era un’avventura nuova, avevo l’impressione di non fare abbastanza, di sbagliare. Tuttavia non ho mai mollato, ho continuato a cercare strumenti che mi potessero aiutare e, finalmente, sulla mia via ho incontrato il pensiero complesso. Questo è stato per me un momento di svolta. Sono passata dalla sensazione di ‘subìre’ l’imprevisto a quella di ‘dialogare’ con esso.

Il dialogo è fondamentale: con gli altri e, lei lo sottolinea, con se stessi. Ma quindi: il leader del futuro somiglia di più a un pinguino che sa come resistere al freddo o a un maestro yogi?

Sarebbe bello che assomigliasse di più a uno yogi. Avrebbe più consapevolezza, più visione. Io credo che in questo momento l’umanità sia chiamata a un’evoluzione collettiva. Come tutte le evoluzioni non si tratta di passaggi facili. Ma abbiamo una grande opportunità che va sfruttata. Per dirla come uno yogi: dobbiamo essere padroni del tempo.

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