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Non è (solo) un gioco da ragazzi: le donne e il paradosso del gaming

Il paradosso del gaming si coglie, in maniera lampante, dalle cifre relative al 2020, l’anno della pandemia in cui il mercato dei videogiochi è esploso: le donne a livello di mercato hanno giocato, è proprio il caso di dirlo, un ruolo fondamentale. Tra i maggiori Paesi europei, su 120 milioni di utenti, quasi la metà sono videogiocatrici, recita un report della società di market research Ipsos relativo al 2020. Il rovescio della medaglia? Solo il 20% circa dei lavoratori dell’industria sono donne. Un dato significativo che è solo il punto di partenza di una tematica dove le sfaccettature sono tante, esplorate durante uno dei talk del percorso Mpw di Fortune Italia dedicato alle prospettive delle donne nel gaming.

Dalla formazione al lavoro

Che ricchezza può rappresentare colmare un gender gap che nel settore dei videogiochi è così culturalmente radicato? E soprattutto, è possibile farlo? Micaela Romanini è presidente Women in games Italia, un’organizzazione no profit il cui obiettivo principale è proprio quello di raddoppiare il numero delle professioniste in dieci anni. Romanini pone l’attenzione sull’accesso al lavoro e sulle donne che intraprendono una carriera nelle materie Stem: rappresentano meno di 4 laureati su 10. Il gaming, dice Romanini, potrebbe aiutare: “Le ragazze che giocano ai videogiochi sono tre volte più propense a intraprendere una carriera in materie Stem. C’è una correlazione importante tra videogiocatrici e materie scientifiche”.

Se vediamo la percentuale di donne che lavora attualmente nel mondo del videogiochi “il dato è quello del 24% in tutta Europa. Il nostro Paese non è indietro, ma è comunque una percentuale molto bassa: la predominanza maschile è molto importante”, dice Romanini durante il talk moderato dal giornalista di Fortune Italia Alessandro Pulcini.

Il valore aggiunto di una maggiore presenza femminile e di una maggiore rappresentanza delle minoranze nelle aziende, dice, è evidente: “Avere team e professionisti con background diversi può avere un apporto in termini di creatività, e numerosi studi hanno dimostrato come le performance migliorano. Se parliamo di tutte le altre professioni dietro all’industria del gaming, come il marketing, l’inclusività permette di raggiungere fasce di popolazione più varie, con risultati molto migliori. Non è un caso la crescita della figura del diversity manager negli ultimi anni. Oggi, per avere risultati competitivi, è fondamentale far identificare gli utenti con le storie che si vogliono raccontare”.


Nonostante i videogame, rispetto agli sport, permettano di superare le barriere fisiche e geografiche, il gender gap nel gaming è un fenomeno radicato a livello culturale, già a partire dall’infanzia: come si trasferisce questo nella formazione? Ne ha parlato Alessandra Micalizzi, Internal lecturer del SAE Institute, dove sono presenti percorsi triennali sia nel game design sia nella game art. “Il numero di ragazze che frequentano i nostri corsi è contenuto, ma le cifre stanno crescendo, dimostrando un cambiamento culturale. Il tema della cultura è fondamentale: c’è una barriera di accesso. Le ragazze non si immaginano all’interno di questa carriera, non viene inserita all’interno delle opzioni professionali possibili”.

Questa barriera parte dall’infanzia: la diversificazione di genere riguarda tanti ambiti professionali, tra cui il gioco. “Contribuire a far sedimentare la pratica videoludica può contribuire alla costruzione di nuovi modelli. Fare in modo che questa pratica non venga ghettizzata, e venga tolto lo stigma di consuetudine non costruttiva, quando in realtà il gioco è uno spazio educativo e relazionale: così si sviluppano determinate competenze. Introdurla favorirebbe senz’altro la proiezione professionale di se stesse all’interno di questo settore”. I modelli sono strutture che introiettiamo in maniera inconsapevole, dice la professoressa: se mancano i modelli, mancano gli elementi necessari anche solo per immaginare una realtà diversa. E se il processo avviene attraverso la quotidianità, continua, si eviterà che venga percepito come una forzatura.

Per Marco Accordi Rickards, Fondatore e Direttore di Vigamus, il primo Museo del Videogioco in Italia, “la storia insegna che il videogioco non ha mai potuto fare a meno del valore portato dalle donne. All’interno di un team di sviluppo in cui si realizzano i videogiochi bisogna avere tante sensibilità diverse, e questo è fondamentale: i prodotti sono globali, e devono essere molto ricchi”, e quindi inclusivi. Tra i grandissimi autori delle origini, negli anni 70, c’è Carol Shaw, programmatrice e designer in Atari prima e in Activision poi, dove ha lavorato a River Raid, uno “sparatutto a scorrimento slegato dai modelli stereotipati sulle donne che spesso popolano l’industria del videogame. Altre due figure fondamentali sono Roberta Williams, cofondatrice della Sierra Entertainment, azienda storica delle avventure grafiche, e Jane Jansen, che ha realizzato con la trilogia di Gabriel Knight, un’avventura grafica che dimostra come con una sensibilità più raffinata si può davvero tirare fuori un prodotto che esprime tutte le potenzialità del videogioco”, dice Accordi Rickards.

“Io credo che bisogna ancora considerare di prendere misure normative”, spiega. Colmare il gender gap “deve essere un processo culturale, ma se l’industria segue dinamiche sbagliate, o un’organizzazione societaria sbagliata, noi queste logiche le dobbiamo scardinare. Quando si sente parlare di quote rosa in maniera negativa, dico di fare attenzione: che questo non sia una comoda scusa per continuare a relegare le donne a ruoli marginali”.

 

Gender gap nel gaming, le priorità secondo i partecipanti all’e-talk:

  1. Infanzia e cultura: intervenire già nei primi anni perché le ragazze siano coinvolte nella pratica videoludica. I videogiochi hanno una barriera d’accesso enorme, e solo intervenendo a livello culturale si può sperare di superarla.
  2. Gli stereotipi dell’industria del gaming: quella stessa barriera d’accesso porta alla ripetizione degli stereotipi di genere in un settore a predominanza maschile. Secondo i partecipanti all’e-talk, solo con una maggiore rappresenza femminile nell’industria potranno aumentare quelle narrazioni positive e non stereotipate che permettono di rendere ‘naturale’ il superamento del gender gap.
  3. Le norme: il tema delle quote rosa nell’industria non può essere disdegnato: la soluzione del gender gap non può essere lasciata solo al mercato (che, va segnalato, è in crescita), e la scomodità del tema delle quote rosa non può essere una “scusa per continuare a relegare le donne” a ruoli marginali.

 

E-Sport e cyberbullismo

Ma quanto valgono le giocatrici per le case di produzione dei videogiochi? Secondo il report Ipsos, nel 2020 in Europa hanno raggiunto una quota di spesa 6,8 miliardi di euro, tra giochi su smartphone, tablet, console e pc. Questo porterà a delle conseguenze? Le realtà che operano in questo settore normalizzeranno sempre la presenza delle donne nel gaming? Arianna Timeto, responsabile Comunicazione e Marketing Acer Italia, spiega come l’azienda di tecnologia abbia  lavorato a Predator Gaming, il brand di Acer dedicato al mondo degli E-sport, sul mercato italiano dal 2018. Essendo distaccato a livello di identità da Acer, il brand ha richiesto una costruzione che tenesse subito in considerazione “il rivolgersi a una community eterogenea, senza andare a enfatizzare pregiudizi. Le donne che giocano oggi sono molte, e in Italia nel 2022 abbiamo 14 milioni di giocatori in totale, quindi la quota parte femminile, di 4 su 10, è rilevante. Dobbiamo continuare a fare in modo che le donne si sentano parte del mondo gaming: ancora ci sono pregiudizi e le donne si sentono poco rappresentate. Quet’anno abbiamo deciso di supportare il primo team femminile di E-sport, legato al videogame Valorant”.

Anche i brand possono cambiare la percezione culturale: il gaming, per sua natura, può essere in realtà molto inclusivo, dicono i partecipanti all’e-talk, nonostante l’industria sia storicamente funestata da casi di molestie.

Un discorso ancora più urgente se si considerano i fenomeni di cyberbullismo nelle community di giocatori, dove le giocatrici “vengono discriminate”, spiega Timeto. “Bisogna cogliere gli aspetti positivi dei videogiochi per ridurre il gender gap così che si parli di un’industria effettivamente rappresentata da donne, e non solo a livello di mercato”, conclude.

Ma non è facile: parliamo di un’industria che notoriamente riflette stereotipi di genere, sia a livello di ‘narrazione’ che a livello corporate. Per Alessandra Micalizzi l’industria è particolare anche per un altro motivo: ci sono poche major e tante realtà indipendenti, e questo facilita le barriere e il gender gap, “perché parliamo di una comunità molto piccola a prevalenza maschile che tende a reiterare certi tipi di stereotipi”.

Tra questi, Micalizzi fa l’esempio di un videogioco “dove il personaggio femminile era muto, nonostante fosse co-protagonista. Un soggetto alieno ma antropomorfizzato, molto formoso, molto procace e quasi nudo, perché respirava attraverso la pelle. Un espediente narrativo destinato a un pubblico maschile con un orientamento di genere tradizionale: uscire da queste narrazioni è il primo passo”.

Il mercato italiano

Secondo l’ultimo report di IIdea, l’associazione che rappresenta l’industria di riferimento in Italia, in un anno di stagnazione, con un giro d’affari totale in calo dell’1,2%, il mercato dei videogiochi in Italia (che vale comunque 2,2 mld) registra una grossa novità: l’affermazione delle aziende Made in Italy. Si tratta di un’occasione per colmare il gender gap?

Videogiochi: il Made in Italy cresce, il mercato italiano no

Per Accordi Rickards rappresenta “un’opportunità per l’arricchimento della produzione culturale e la possibilità di poter attingere a un bacino maggiore di talenti. Ma è anche importante sottolineare che applicare una nuova mentalità può essere più costoso e difficile, ma bisogna comunque avere il coraggio di essere rivoluzionari. Non possiamo sperare di essere sempre e solo guidati dal mercato”.

Altro tema fondamentale: la necessità di un equilibrio nel corso della trasformazione del settore: come si fa allora a non scadere nell’artificiosità di una rivoluzione comunque necessaria? “C’è il rischio che questa politica creativa sia più spontanea e naturale: quando si fa in modo forzato abbiamo un effetto boomerang dove il giocatore ha l’impressione di essere indottrinato”. In casi come la rivisitazione del personaggio di Lara Croft in Tomb Raider, effettuata proprio da una donna, Arianna Pracet, quel passaggio funziona perché nasce dalla creatività, “senza scadere nel gioco-propaganda, nel gioco-manifesto”, dice Accordi Rickards.

Per Micaela Romanini (che con Accordi Rickards ha scritto un libro proprio sulla presenza delle donne nei videogiochi, in pubblicazoine ad ottobre) si deve lavorare su più fronti, dal dialogo con ragazze e scuole, per poi trainare formazione e industria.

Ma c’è anche una componente politica che va integrata. Iniziando a inserire misure per una maggiore inclusione nelle aziende si “normalizzerà la situazione. Nell’Ue la von der Leyen ha fatto molto con le normative sulla parità di retribuzione. Può essere visto come un’imposizione, ma è necessario questo tipo di approccio. Con Women in Games abbiamo realizzato una guida per una società più rappresentativa. Lo scopo deve essere quello di realizzare un ‘campo da gioco equo’. Nelle multinazionali il discorso è facile, ma nella realtà italiana dove ci sono Pmi e startup da 10 dipendenti è meno semplice: bisogna capire che anche nelle piccole aziende si può fare qualcosa, a partire da job description che attirino anche figure femminili nelle offerte di lavoro”.

 

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