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Banda Islands, sulle onde del mito, con stile

Le Molucche evocano epos marinari à la Salgari o à la Stevenson nell’estremo est indonesiano: spezie, moschetti e pergamene tra abissi e rade dalle ineffabili cromie. E invitano a un’esperienza di scoperta alle Banda, manciata di terre a pochi gradi dall’equatore in cui vivono 20.000 persone che parlano un dialetto malese.

Ai margini di destinazioni turistiche consolidate – come le vicine (si fa per dire) Raja Ampat – nel Paese ne capitano ogni giorno altre due tra le mani: sulla banconota da 1.000 rupie campeggiano infatti il seicentesco forte olandese di Neira e la sagoma di Api, vulcano che incombe davanti. Con Jakarta a oltre 2.000 chilometri (e due ore di fuso orario), tutto inizia da Sulawesi.

Culla dell’antica arte di costruzione dei phinisi (patrimonio Unesco), è lì che vengono realizzate le versioni contemporanee di queste barche in legno: due alberi, sei/otto vele, niente boma, quattro ponti.

L’imbarcazione Nala, versione contemporanea dei phinisi [foto di Jason Reposar]
A bordo del Nala, Boumedienne fa gli onori di casa (“call me Boum”) e sciorina il proprio dna flottante: passione per nautica e tradizioni, visione d’avanguardia dei liveaboard d’alta gamma. La sua Yacht Sourcing di phinisi ne gestisce due, questo è stato costruito nei cantieri di Bira: chiglia in iron wood – “di lì e del Borneo, i migliori”, assicura – e allestimenti di standard elevati.

Il legno domina anche sopra il pelo delle onde, invita al comfort delle cabine e seduce con la prospettiva di affacciarsi: su e giù, cercando ogni volta un angolo diverso di vista e di ispirazione. Soprattutto dal ponte più in alto, uno dei più grandi per un natante indonesiano. La navigazione alterna mare aperto ad approdi ai moli o all’ancora, insieme al dive master Dedy ogni giorno si coordinano le immersioni – a bordo c’è tutto ciò che serve (gli squali martello l’avvistamento più ambito) – mentre un equipaggio di una dozzina di persone si occupa del resto.

Ben presto si conferma – miglio dopo miglio, alla velocità di crociera di 6 nodi – che si tratta di sintesi tra island hopping col minimo di nostalgia d’ordinanza e il vivere ad un ritmo su cui man mano ci si sintonizza. L’arrivo è salutato da una kora-kora – piroga lunga e stretta (da non perdere il festival in autunno) – che scorta il Nala.

Sulla sinistra di uno scenario che pare un fiordo tropicale ecco Neira, a destra i pendii dell’isola-vulcano solcati da strisce di lava, reminder dell’eruzione di trentacinque anni fa che ha generato piattaforme di nuovi coralli. Sullo sfondo la terza isola, la più grande: Banda Besar.

Basterebbe un simile tris a squadernare oleografia, geografia, Storia e storie dell’arcipelago ché è qui che i portoghesi hanno iniziato l’avventura (senza troppa convinzione) e gli olandesi hanno tentato di farne un business cercando di inserirsi nei commerci di chiodi di garofano, noce moscata e macis. Sotterfugi e sfregi, zero tattica e strategie sbagliate che sono costate vite, alimentando sogni e incubi. E tutto ciò che c’è in mezzo. Sulla scena in quei primi anni del Seicento sono poco dopo comparsi gli inglesi, con altrettanti (dunque pochi) scrupoli ma più scaltri.

 

Interni del Nala, courtesy LDS Voyages

Sfogliamo dunque – perché no? Land ahoy! – quelle pagine ché è soprattutto sull’ovest che soldati e mercanti al soldo di Sua Maestà hanno scommesso: vicine quanto basta – ma distanti come serviva per farsi (letteralmente) i propri affari senza eccessivo bisogno di polvere da sparo – hanno due nomi improbabili: Run e Ay.

Reef e bassi fondali non consentono al Nala di attraccare, ci si sposta in gommone e in tre quarti d’ora si sbarca a Run. Quest’isola – anzi, pulau – presenta il campionario più denso dell’intero complesso delle Banda, a partire dal forte di cui s’apprezza la grandeur (reale o ambita) che fu, con un paio di cannoni abbandonati sulle muraglie. Idem per quanto resta dell’epoca dei perkeneer, i coloni della Compangia Olandese delle Indie Orientali: residenze, magazzini e aree di lavoro. La vegetazione domina su cemento di oggi e mattoni dell’altroieri. Nel camposanto avvolge, cela e svela i nomi sulle lapidi senza soluzione di continuità con gli enormi mandorli che fanno lo stesso con gli alberi della noce moscata: fungono da ombrelli al riparo dei quali l’oro delle Banda, in forma di piccole sfere marroni, sopravvive e viene raccolto e poi essiccato.

Un senso di tempo sospeso e ineluttabile si fa strada, la ciurma del Nala cammina incuriosita tra sentieri e vialetti: anche per loro è un andare tra rimandi esotici di posti che conoscono e che sentono di dover riscoprire. E per chi scrive la possibilità di aggiungere al binomio acqua/terre un’occasione di confronti e amicizia, oltre (ben oltre) l’altra dualità, ospiti/equipaggio: non succede spesso, qui e così sì. Ay è la prossima tappa.

A dar retta a cronache, dispacci e trattati, l’isolotto che parrebbe anonimo è stato pedina di scambio tra i leoni d’Inghilterra e quelli d’Olanda nel garantire a questi ultimi la proprietà di Manhattan. Ma niente grandi mele, restiamo sulla botanica locale: fa capolino a bordo nelle spremute di frutta fresca, nei ginger tea del pomeriggio, nei sorprendenti twist dei cocktail preparati da Eko, coi richiami alla preghiera che s’alzano dai minareti. E poi i capisaldi del foodscape locale preparati da Chandra, chef esperto: sambal e satay, nasi goreng, zuppe sublimi.

Tra sciabordii e dintorni Boum racconta delle Komodo, l’altro (ennesimo) grappolo di terre verso cui i phinisi viaggiano. Per ripartire e tornare, seguendo le stagioni e cercando nuovi modi di interpretare il turismo nautico: yachting, reloaded. Tra inedito e autentico, a vela e a motore, di esplorazione ed esperienze.

 

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