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Il tragitto casa-lavoro fa parte della giornata lavorativa? Una questione da 578 mld di dollari

Quando inizia la giornata lavorativa? Nel momento in cui si lascia la propria abitazione per andare a prendere la metropolitana? Quando si legge il primo messaggio di lavoro mentre si aspetta un caffè all’ingresso dell’ufficio? O quando si raggiunge la propria scrivania, si apre il laptop e si accede alla casella di posta? Se lo chiedete ai lavoratori, è probabile che risponderanno che il tragitto che si compie tra casa e lavoro conta come lavoro. Riuscite a immaginare cosa ne pensano i loro superiori?

Questo è solo uno dei punti su cui capi e lavoratori spesso non sono d’accordo riguardo alla definizione dell’orario lavorativo. La questione ha aperto nella maggior parte delle aziende una battaglia apparentemente infinita con i dipendenti a proposito del rientro al lavoro in presenza. Quando si parla di lavoro da remoto (e se sia effettivamente produttivo quanto quello svolto in ufficio), il problema in realtà si riduce a differenze essenziali di prospettiva.

L’ultimo rapporto sul lavoro del National Bureau of Economic Research (NBER) degli economisti Jose Maria Barrero, Nicholas Bloom e Steven J. Davis individua due grandi divergenze tra manager e lavoratori che stanno mettendo in stallo gli sforzi di ritorno al lavoro in presenza. Primo, i lavoratori pensano che eliminare il pendolarismo comporti automaticamente una maggiore produttività perché “restituisce” più ore alla loro giornata. Secondo: i lavoratori non stanno cogliendo le difficoltà dei manager di guidare una forza lavoro a distanza.

Il vero dilemma è che entrambe le parti hanno ragioni da vendere. Il pendolarismo è, per definizione, tempo trascorso senza lavorare, mentre molti lavoratori che rimangono a casa finiscono comunque per lavorare anche oltre il loro orario. Anche i più convinti esperti pro-flessibilità riconoscono che il lavoro in presenza è fondamentale per i lavoratori all’inizio della carriera e che i quadri intermedi sono impantanati nella posizione poco invidiabile di far rispettare le richieste di rientro in ufficio dei superiori e al contempo gestire i lavoratori appena assunti che puntano i piedi. Punti di vista così diversi rispetto a cosa conti di più (e che cosa davvero impatti sulla produttività) spiega perché si stia ancora facendo tira e molla, dopo tutto questo tempo.

La questione del pendolarismo

Tenere conto del tempo impiegato per spostarsi è una questione importante quando si valuta l’efficacia del lavoro a distanza, ha detto a Fortune Barrero, uno dei ricercatori, professore aggiunto di finanza presso la Business School dell’Instituto Tecnológico Autónomo de México (ITAM). Tra gli intervistati che hanno dichiarato a Barrero di essere più produttivi a casa, quasi tutti (86%) affermano che il tempo risparmiato non facendo il pendolare è un vantaggio importante e una delle cose che preferiscono del lavoro da casa.

“Considerate una persona che lavora otto ore al giorno, vive a trenta minuti dall’ufficio e svolge la stessa quantità di lavoro sia che lo faccia da casa che dall’ufficio”, scrivono gli autori del documento. “Il tempo totale dedicato al lavoro è di nove ore al giorno se fa il pendolare e otto ore se lavora da casa. Quindi, il lavoratore/la lavoratrice percepisce (correttamente) che – quando lavora da casa – impiega l’11% di tempo in meno per raggiungere lo stesso risultato: un notevole aumento della produttività!”

In questo modo i lavoratori hanno più ore a disposizione per altre attività, che si tratti di svago o di impegni genitoriali. E anche se non sempre impiegano le ore in più lavorando, molti finiscono per farlo e dunque per svolgere più lavoro. Questo è probabilmente più produttivo di quanto i datori di lavoro immaginano.

Ogni anno, l’americano medio spende quasi 8.500 dollari e 239 ore di viaggio da e verso il lavoro, secondo i dati di Clever Real Estate. Il 31% in più di denaro (e il 20% in più di tempo) rispetto al pre-pandemia. Considerando tutti i settori professionali, ciò equivale a 16 miliardi di ore e 578 miliardi di dollari all’anno, un prezzo molto alto da pagare per confrontarsi e discutere in presenza.

A questo proposito, Barrero, Bloom e Davis citano i dati della loro ricerca, secondo i quali quasi la metà dei lavoratori da remoto (43%) afferma di essere più produttiva a casa, mentre solo il 14% ha dichiarato di essere meno produttivo. (Il restante 43% ha dichiarato di essere più o meno ugualmente produttivo in entrambi i luoghi.)

Tuttavia, la ricerca rileva anche che il lavoro completamente da remoto è associato a un calo della produttività dal 10% al 20% rispetto al lavoro completamente in presenza. Barrero ha spiegato così la discrepanza a Fortune: “In molti degli studi che citiamo e in alcuni risultati delle nostre stesse indagini, i lavoratori spesso sono più produttivi da remoto semplicemente perché risparmiano tempo dal pendolarismo quotidiano e da altre distrazioni dell’ufficio. Questo può farli sembrare più produttivi su base ‘giornaliera’, ma significa che in realtà sono meno produttivi su base ‘oraria’”.

La divergenza di prospettiva va avanti da un po ‘di tempo. A gennaio, una ricerca della Harvard Business Review ha rilevato che i dipendenti tendono a includere il tempo che impiegano per spostarsi nelle loro valutazioni. Se quel tempo viene eliminato, lo interpretano come un aumento della produttività. I datori di lavoro, naturalmente, invece lo vedono come un minus nel loro bilancio.

Il labirinto del lavoro ibrido ha trasformato i manager in “ammortizzatori”

I lavoratori possono facilmente dire che i capi vogliono che siano presenti in ufficio per tenerli d’occhio (considerando l’ossessione per la produttività in corso, chi può biasimarli?), ma la questione è un po’ più complicata. Quello che dal punto di vista dei lavoratori può sembrare più produttivo non sempre lo è per i manager. Questo può impedire ai dipendenti di vedere le difficoltà dei loro manager, sottolinea il documento.

I senior manager, in particolare, sono preoccupati di come una forza lavoro remota possa compromettere la cultura aziendale, scrivono i ricercatori. Vale a dire, temono che ridurrebbe le opportunità di formazione e di upskilling per i lavoratori più giovani, il che avrebbe un effetto domino sulla produttività dell’intera azienda. Contribuisce a quel calo della produttività dal 10% al 20% rilevato dai ricercatori.

“Supervisionare, formare, guidare e costruire una cultura aziendale è molto più difficile” con i lavoratori completamente remoti che con i lavoratori presenti alcuni giorni a settimana, ha detto Barrero a Fortune. Le difficoltà nella comunicazione a distanza e la mancanza di motivazione sono i problemi principali che impediscono ai lavoratori completamente remoti di essere più produttivi, ha affermato. È anche sempre più evidente che il lavoro a distanza non favorisca il fiorire di relazioni tra colleghi, probabilmente ostacola le loro opportunità di guadagnare potenziale e lo sviluppo del talento nei giovani lavoratori.

Non è facile fare il capo, specialmente quando vengono richiesti sia l’adempimento che il consenso mentre le regole del posto di lavoro continuano a trasformarsi rapidamente. Due terzi dei leader affermano di avere più responsabilità ora rispetto a prima della pandemia e i loro tassi di burnout risultano alle stelle.

Come ha scritto su Fortune Gary Beckstrand, vicepresidente dell’O.C. Tanner Institute, i ‘middle manager’ sono diventati “ammortizzatori di valore inestimabile” per le aziende. Hanno meno probabilità rispetto ai lavoratori che ricoprono posizioni superiori o inferiori alla loro di sentirsi apprezzati e sono più propensi a dire che, dal 2020, hanno affrontato le maggiori difficoltà nel mentoring dei dipendenti e nella comunicazione efficace. “Un buon modo per risolvere il problema, mi dispiace dirlo, è una maggiore collaborazione in presenza,” ha scritto Beckstrand. “Quando i manager si sentono ‘connessi’ ai loro team, le probabilità che la cultura di un’organizzazione prosperi aumentano di 18 volte”.

Ma quando si tratta di lavoro in presenza, Barrero sostiene che i capi sottovalutano quanto i dipendenti possano essere aperti ai lati positivi. I lavoratori, soprattutto quelli più giovani, sono ben consapevoli di quanto possano essere utili gli incontri di persona. “In realtà, la percentuale di persone che vogliono lavorare completamente da remoto è più alta per i lavoratori più anziani e aumenta con l’età”, dice. “Penso che i manager e il pubblico siano forse un po’ troppo scettici riguardo alla percezione dei lavoratori del lavoro in presenza. Molti lavoratori sembrano ben sintonizzati sui compromessi dell’interazione da remoto”.

Fortunatamente, la soluzione non è così difficile come potrebbe sembrare. Come gli esperti hanno sostenuto per anni, un programma ibrido flessibile è quasi sempre l’approccio corretto.

La versione originale di questo articolo è disponibile su Fortune.com.

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