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Industria del pallone e palude burocratica

Il calcio italiano è uno dei pilastri dello sport e della cultura del Belpaese ma sta vivendo difficoltà economiche oggettive (debiti per oltre 5 mld e mezzo), affanni agonistici strutturali (siamo fuori dal secondo Campionato del mondo consecutivo), calo dei ricavi.

Sebbene il calcio abbia evidenziato un aumento negli incassi degli stadi grazie alla riapertura delle arene dopo la pandemia, pesano come un macigno gli elevati costi di produzione, diventati insostenibili a causa delle ingenti retribuzioni che costituiscono quasi l’84% dei ricavi.

Qualcuno ha definito la Serie A italiana uno stipendificio. Non solo per i lauti stipendi dei calciatori, quanto per l’enorme fetta di risorse che finisce nelle tasche di procacciatori, procuratori e affini che assistono (legalmente, finanziariamente, economicamente, personalmente) i campioni che scendono in campo. Siamo vieppiù in presenza di sperequazioni diventate insostenibili.

Nessuno, crediamo, possiede oggi la ricetta miracolosa per risanare d’emblée l’industria del calcio.

C’è una questione di buon senso molto sottovalutata che abbiamo voluto analizzare in questo numero della rivista. Il calcio è un sistema industriale complesso che contribuisce significativamente all’economia del Paese, coinvolgendo 12 settori merceologici nella sua catena di valore. L’impatto sul Pil italiano vale oltre 10 mld di euro e attiva più di 112.000 posti di lavoro.

Il solo calcio professionistico, a livello fiscale e contributivo, produce un gettito complessivo di oltre 1,5 mld di euro, dato che equivale a circa il 70% del contributo fiscale generato dall’intero sport italiano.

Per uscire dal pantano economico esistono molte strade. Due di queste sono obbligate: ricapitalizzare o indebitarsi. Gli azionisti dei più importanti club di Serie A, tutti di proprietà straniera o con sedi all’estero, hanno ricapitalizzato. Hanno immesso risorse per oltre un miliardo nelle casse di società come Juventus, Inter, Milan, Roma. E si dicono pronti a scommetterci ancora. Che cosa chiedono queste aziende che hanno deciso di investire capitali in Italia? Che lo Stato consideri il calcio non solo un gioco ma una industria. Vorrebbero che lo Stato avesse per la Football industry le stesse attenzioni che ricevono altri settori industriali. Quando ce n’è bisogno occorre usare aiuti, incentivi, bonus o altre leve per far ripartire un comparto che arranca. Insomma, non fare la guerra al calcio ma aiutarlo a tornare in carreggiata. I Club chiedono solo e sempre soldi? No, reclamano più attenzione e meno burocrazia.

Milan, Inter, Roma, Napoli (e altre società) vorrebbero uno stadio nuovo e non riescono a realizzarlo pur avendo risorse disponibili. Lo stadio nuovo, o di proprietà, significa: maggiori introiti economici attraverso la gestione diretta delle entrate da biglietti e abbonamenti; sviluppo dell’area circostante creando opportunità come centri commerciali, store ufficiali, alberghi, musei, campi di allenamento, scuole, cliniche mediche e sedi societarie. Uno stadio di proprietà può diventare un elemento identificativo per il club, rafforzando il brand e la connessione emotiva dei tifosi con la squadra.

Siamo stati a Casa Milan per capire come un club intriso di passione, storia e identità abbia evitato la bancarotta, passando a bilanci positivi in pochi anni. Un successo voluto da Gerry Cardinale, che ha riportato il Milan a essere competitivo in Italia, in Europa e nel mondo attraverso il lavoro instancabile del Ceo Giorgio Furlani e del presidente Paolo Scaroni. Ora vorrebbero investire risorse in un nuovo stadio, ma astruse pastoie burocratiche impediscono la nascita di un catalizzatore di ulteriori investimenti destinati al potenziamento della squadra di calcio.

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