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Calcio, tutti i malanni del pallone

Costi sempre più insostenibili, stadi fatiscenti, scarsi investimenti nei settori giovanili, con evidenti ripercussioni sui risultati della Nazionale. I mali del calcio italiano sono atavici e noti, accentuati da una certa inerzia burocratica e dall’assenza di una chiara volontà politica. E sullo sfondo incombono la minaccia secessionista della Superlega e il pressing crescente delle nuove frontiere del calcio globalizzato, dagli Stati Uniti ai Paesi arabi, a minare un monopolio europeo a lungo ritenuto inattaccabile. Abbiamo approfondito guai e dilemmi del sistema calcio con Marco Bellinazzo, giornalista, autore di libri di successo – fra cui il recente ‘Le nuove guerre del calcio’ – e uno dei massimi esperti di economia sportiva del nostro Paese.

Che ripercussioni potrà avere la mancata proroga del bonus fiscale previsto dal decreto crescita?

Quel provvedimento ha aiutato il calcio italiano a non perdere competitività durante la pandemia e i risultati delle nazionali minori ci dicono che non ha penalizzato più di tanto i giovani italiani. L’incentivo non poteva certo essere permanente, ma si poteva optare per un’eliminazione graduale, magari accompagnata da altre misure legislative volte a rilanciare il sistema calcio in un contesto internazionale sempre più complesso.

Quali?

Penso a una commissione in grado di bypassare i tanti ostacoli burocratici per la realizzazione di nuovi stadi e centri sportivi. Ma anche alla valorizzazione dell’apprendistato, già introdotto dalla legge di Bilancio del 2022 ma non ancora operativo, e a un provvedimento che riconosca ai club una quota del giro d’affari delle scommesse, che quest’anno potrebbe superare i 15 mld e che è reso possibile dall’utilizzo dei marchi delle squadre.

Quanto ci costa questa inerzia burocratica che frena la costruzione dei nuovi stadi?

L’Italia è campione del mondo di rendering e plastici. Dovremmo diventare protagonisti anche nella realizzazione di impianti nuovi che consentano di incrementare i ricavi delle società. Per ogni anno in cui restano nel vecchio Meazza, Milan e Inter perdono circa 50 mln a testa. Il mancato ammodernamento degli stadi costa al calcio italiano dai 300 ai 350 mln all’anno di mancati introiti. In un decennio fanno 3 mld e mezzo, una cifra che avrebbe potuto finanziare la realizzazione di impianti moderni in tantissime città.

Da questo punto di vista Euro 2032 è un’opportunità irripetibile.

Purtroppo dobbiamo sempre ancorarci a un grande evento per intervenire sulle strutture ed Euro 2032 è davvero l’ultimo treno. L’Italia si è vista costretta ad allearsi con la Turchia per non perdere la corsa e ottenere la possibilità di ospitare la metà delle partite della manifestazione. Gli Europei rappresentano una grande occasione per riqualificare i cinque stadi che sarebbero poi destinati a ospitare gli incontri. Ma non solo. Si potrebbe pensare di intervenire con un provvedimento d’urgenza per ristrutturare anche gli impianti di altre città non direttamente coinvolte nell’organizzazione.

A che punto siamo?

Nel giro di un anno e mezzo dovremo fornire indicazioni precise sugli stadi coinvolti, ma non vedo al momento la volontà politica di investire sulle infrastrutture sportive. Stadi, palazzetti, centri sportivi funzionali non sono solo redditizi per i club ma svolgono anche una preziosa funzione sociale sul territorio. I fondi del Pnrr destinati allo sport sono un’esiguità: 1 mld, più o meno l’1%. Così si lasciano le società a lottare con le istituzioni locali nelle singole città. E gli esempi recenti di Milano, Roma e Firenze certificano quanto questa battaglia sia sfavorevole ai club.

La Nazionale non si è qualificata ai Mondiali per la seconda edizione di fila. Perché non siamo più in grado di sfornare talenti come in passato?

Credo che andrebbe aumentata la quota di risorse dei club destinata a giovanili e centri sportivi. L’apprendistato può rappresentare un elemento importante: i giovani vanno aiutati anche nel percorso scolastico, perché questo aiuta a formare uomini e atleti di livello. I risultati delle Under italiane negli ultimi anni non sono così negativi, c’è però un evidente problema legato al salto fra i professionisti. Al di là dei grandi talenti, che in qualche modo riescono a sbocciare indipendentemente dal contesto, la regola deve essere quella di un movimento calcistico che aiuta i ragazzi a crescere e a compiere tutti gli step delle giovanili, fino al passaggio più importante e delicato che è l’entrata nel mondo dei professionisti. In Italia abbiamo il caso della seconda squadra della Juventus che ha valorizzato molti giovani; forse può rappresentare un modello, anche se non tutte le componenti del sistema sembrano essere favorevoli al progetto delle squadre B.

Il Report Calcio 2023 della Figc certifica un indebitamento importante del nostro calcio. Come si inverte la rotta?

Il sistema fa fatica perché negli ultimi quattro anni, complice la pandemia, ha perso 4 mld. In assenza di proprietà che ricapitalizzino l’indebitamento cresce. Il livello attuale ha forse già superato i limiti di guardia. La ricetta non può che essere una: riduzione dei costi e incremento dei ricavi. Sul primo fronte, la riduzione non deve essere troppo drastica, altrimenti si ha un effetto controproducente, perché vorrebbe dire rinunciare ai grandi campioni che possono fare la fortuna economica dei club. Dall’altro lato, lavorare sulle leve di incremento dei ricavi vuol dire investire su stadi, centri sportivi e formazione dei calciatori da vendere sul mercato o da inserire in prima squadra. E poi bisogna puntare forte sull’internazionalizzazione dei club. Il mercato televisivo italiano sembra aver raggiunto il suo punto di saturazione e quindi si tratta di lavorare sui diritti tv per l’estero, ma per quello la presenza di giocatori di prestigio è fondamentale.

La Corte dell’Unione europea ha riaperto la partita della Superlega, sfatando il mito del monopolio Fifa e Uefa.

In molti hanno letto questa notizia quasi esclusivamente in rapporto al progetto della Superlega. Io penso invece che sia necessario allargare il campo. La sentenza apre uno spazio nuovo: la possibilità che i club organizzino autonomamente delle competizioni al di fuori dei vecchi perimetri. In quest’ottica, al di là delle dichiarazioni di fedeltà alla Uefa di tanti club in difficoltà economica, è in atto una riflessione molto profonda da parte di tutti gli attori sulla possibile riorganizzazione del calcio europeo.

C’è un potenziale ancora inespresso?

Assolutamente sì. Basti pensare che gli sport professionistici americani arriveranno presto a fatturare nell’insieme 50 mld di dollari a stagione. Il calcio europeo, pur avendo una platea di appassionati nel mondo molto più ampia, si attesta sui 30 mld. Ci vuole uno sforzo di fantasia per individuare nuove formule, perché l’attuale assetto del calcio continentale rischia di uscire sconfitto dal confronto con la Premier e con le nuove realtà emergenti, dagli Stati Uniti ai Paesi arabi.

Può farci qualche esempio?

Penso a un format che assomigli all’Eurolega di basket oppure anche a delle mini competizioni. La Fifa, al netto delle dichiarazioni formali, vede di buon occhio questi modelli. La creazione delle superleghe in Africa, in Asia e in Nord America va in questa direzione. D’altro canto una superlega mondiale c’è già: il nuovo Mondiale per club che si terrà nel 2025. Il momento è maturo per mettere in campo cambiamenti importanti.

In Europa si profila una crescente polarizzazione fra un circolo esclusivo di 10-12 top club miliardari e tutti gli altri. È questo il futuro del nostro calcio?

Lo status quo è questo e lo sarà sempre più a meno di cambiamenti radicali. Le regole imposte dalla Uefa negli ultimi vent’anni hanno determinato una condizione di oligopolio da parte di pochi club che fatturano dai 500 mln in su e che sono vincenti sia in patria che nelle competizioni internazionali, al netto di eccezioni sempre più sporadiche. Per questo credo che la sentenza Ue dovrebbe essere presa come spunto dalle leghe nazionali, per riflettere su come dar vita a competizioni alternative, che aumentino i ricavi e facciano crescere tutta la filiera, perché il principio che regola il funzionamento dell’economia calcistica è quello del competitive balance: la possibilità che più club possano ambire alla vittoria e non sempre i soliti noti.

C’è stato un tempo in cui la Serie A era considerato il campionato più prestigioso. Oggi l’egemonia è detenuta saldamente dalla Premier League. È possibile ridurre il gap con gli inglesi e con le altre leghe?

Con la Liga spagnola, orfana delle bandiere di Messi e Cristiano Ronaldo, possiamo giocarcela. La Premier gioca invece un altro campionato: quasi 7 mld a stagione di fatturato, più del doppio delle principali inseguitrici, Liga e Bundesliga, che si fermano sui 3 mld a testa, mentre noi siamo ancora più indietro.

A mio avviso, l’idea di un campionato europeo è molto affascinante e potrebbe rappresentare un modo per produrre valore, a patto di salvaguardare le tradizioni calcistiche dei singoli Paesi. Certo, è un qualcosa di complesso da realizzare, ma se non si innova rischiamo di condannare il calcio europeo – e di riflesso quello italiano – a una stagnazione da cui sarà sempre più difficile uscire.

 

 

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