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Microplastiche pericolo invisibile: intervista a Stefania Di Vito di Legambiente

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Sono estremamente piccole ma non per questo meno pericolose e nocive per l’ambiente rispetto a rifiuti più vistosi. Le microplastiche – le particelle e i frammenti di polimeri sintetici con dimensione inferiore ai 5 millimetri – galleggiano indisturbate nei nostri mari, dove sono ingerite dai pesci, entrando nella catena alimentare. Abbiamo approfondito l’argomento con Stefania Di Vito, membro dell’ufficio scientifico di Legambiente.

L’intervista

Che cosa sono le microplastiche?

C’è ancora confusione su cosa siano. La comunità scientifica è concorde nell’intendere per microplastiche tutte le particelle e i frammenti di plastica con dimensione inferiore ai cinque millimetri; però si sta ancora discutendo sul limite inferiore.
I limiti dimensionali non sono quindi ancora stati definiti e concordati universalmente.

Negli ultimi anni se ne parla sempre più spesso, perché sono salite agli onori delle cronache?

Tutto parte dal tema dei rifiuti dispersi in mare. Se ne parla sin dagli anni ’80, ma negli ultimi anni si sono amplificate le ricerche e si è iniziato a comprendere l’entità del problema. Una volta svelato il problema dei macro-rifiuti, quello dei micro-rifiuti è emerso di conseguenza. Le indagini sono partite dal mare, per poi estendersi a località remote e lontane dall’urbanizzazione, come i laghi della Mongolia, e anche lì è stata rinvenuta la presenza di microplastiche. E poi sono iniziate le analisi sulla neve e sugli alimenti, quali miele, sale, birra e così via. Sono state fatte delle analisi anche sull’organismo umano e anche lì sono state trovate microplastiche.

Quali sono le fonti principali di provenienza delle microplastiche?

Le microplastiche si distinguono in primarie e secondarie, a seconda della loro origine. Le microplastiche secondarie rappresentano la quota più consistente. Sono tutte quelle che derivano dalla disgregazione dei rifiuti più grandi abbandonati nell’ambiente. Ciò può avvenire a opera dei raggi solari, del vento, o dell’azione meccanica delle onde. Sono invece primarie quelle particelle di plastica aggiunte intenzionalmente dall’uomo nei prodotti di uso comune, come gli scrub nei cosmetici, nonché quelle rilasciate nell’ambiente direttamente sotto forma di piccole particelle: è il caso, ad esempio, delle microplastiche provenienti dall’abrasione degli pneumatici o dal lavaggio di capi sintetici in lavatrice.

Esistono accorgimenti specifici da mettere in campo per ridurne la diffusione?

L’accorgimento specifico è ridurre e bloccare a monte le microplastiche primarie. Sulle secondarie parliamo di prevenzione della creazione e della dispersione del rifiuto nell’ambiente e infine di rimozione, ma quella è l’ultima spiaggia. Dovremmo concentrarci molto di più sul non far proprio arrivare la plastica in mare.

Com’è cambiata la percezione del fenomeno negli ultimi anni?

Anni fa la narrazione era legata ai tempi di degradazione dei rifiuti; col tempo però si è compreso che la plastica non scompare, non va a degradarsi, ma è insolubile e si frammenta in parti sempre più piccole. Si possono mettere in campo delle opere di filtrazione. I depuratori, ad esempio, hanno dei filtri che intercettano una parte delle plastiche, però poi nel corpo idrico ricettore ci saranno sempre delle particelle più piccole che non si riescono a bloccare.

Le microplastiche vengono ingerite dai pesci ed entrano nella catena alimentare. Qual è il loro impatto sulla vita marina e di riflesso sull’uomo?

Le microplastiche ingerite possono provocare senso di sazietà nei pesci e quindi morte per inedia. Il problema maggiore però è che la plastica è additivata di sostanze chimiche: ritardanti di fiamma, coloranti, ftalati, che si accumulano nell’animale con ripercussioni sull’apparato respiratorio e digerente. Noi potremmo essere esposti soprattutto a queste sostanze tossiche. Ma su questo gli studi sono ancora in corso. Ci sono delle evidenze sul fatto che possano esserci dei disturbi a livello endocrino, ma il discorso è ancora in fase embrionale.

Quali sono le soluzioni che sta mettendo in campo l’Unione europea?

C’è la revisione della direttiva sulle acque reflue, che includerà anche le microplastiche tra gli inquinanti emergenti da attenzionare e bloccare. E poi c’è la nuova direttiva sulle acque per il consumo umano, che è già in vigore. La direttiva sulle plastiche monouso è incentrata sui rifiuti di maggiori dimensioni e seppur in modo indiretto inciderà positivamente sulla quota di microplastiche prodotte. Ma c’è anche la direttiva packaging e il regolamento della Commissione europea sulle microplastiche primarie: glitter, vernici industriali, cosmetici.

Il Mediterraneo è uno dei mari con la più alta concentrazione di microplastiche. Come si spiega questo primato negativo?

Il Mediterraneo è considerato una delle macrozone di accumulo di plastiche e microplastiche. Lo è perché è un mare chiuso, quindi con un ricambio d’acqua molto lento ed è circondato da Paesi industrializzati, la cui produzione di rifiuti è consistente. Ma soprattutto c’è la questione dei fiumi, che fungendo da nastro trasportatore, portano a mare tutto quello che c’è nell’entroterra. E quindi i nostri principali fiumi, dal Po al Tevere, ma anche il Nilo, sono dei grandi vettori di rifiuti.

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