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Quale ruolo per la politica europea: riflessioni in vista delle elezioni

von der Leyen vaccini

Alla vigilia delle elezioni europee di giugno, è opportuno avviare alcune riflessioni su come stia cambiando il ruolo della politica europea. Sebbene l’ultimo trattato sul funzionamento dell’Unione firmato a Lisbona si avvicini al quindicesimo anno di età, e le previsioni in esso contenute siano sempre le stesse, fattori esogeni come la pandemia, crisi energetiche e climatiche, l’immigrazione, solo per fare alcuni esempi, hanno contribuito al progressivo accrescimento del ruolo della Commissione all’interno dell’arena decisionale europea. Di fatto, la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (nella foto in evidenza), detiene oggi un peso sicuramente maggiore rispetto a quello esercitato da Jean-Claude Junker, il quale a sua volta contava più di Barroso. Ciò è avvenuto da un lato per via del progressivo accrescimento del ruolo di Bruxelles sui bilanci degli Stati, ma soprattutto perché davanti alle sfide degli ultimi anni, gli Stati membri si sono trovati sguarniti nell’affrontarle. Davanti all’emergenza Covid-19, l’Unione europea ha reagito proponendo l’acquisto congiunto dei vaccini e con l’erogazione dei fondi del Recovery and Resilience Plan per risollevare le provate economie europee attraverso l’emissione di debito comune. Di fronte alla guerra in Ucraina si sta arrivando a abdicare ad una delle caratteristiche principali di uno Stato, la politica di difesa, attraverso il mutuo acquisto di munizioni, sdoganando così un altro tema negli anni fortemente dibattuto, quello della costituzione di un esercito comune europeo.

In questo scenario si discute molto anche di riforma del Trattato di Lisbona nell’ottica di rafforzare ulteriormente i poteri dell’Unione, arrivando a proporre per la Presidenza del Consiglio europeo figure di prima grandezza come quella di Mario Draghi. 

Anche i partiti europei appaiono sempre più integrati e il confronto sull’appartenenza alle grandi famiglie politiche europee, condiziona anche le dinamiche politiche nazionali, arrivando a determinare il ruolo e il peso dei vari leader in Europa. I recenti congressi del Partito Popolare europeo e di quello socialista sono stati seguiti con un interesse, inimmaginabile solo fino a pochi anni fa. Per rimanere nella dimensione italiana, l’appartenenza di Fratelli d’Italia ai conservatori europei, della Lega a Identità e Democrazia e di Azione e Italia Viva a Renew Europe, o di Forza Italia al partito popolare e del PD ai Socialisti, determina quanto possano poi contare sulle future scelte dell’Europa. 

All’interno del Parlamento europeo, far parte di un gruppo, piuttosto che di un altro, è la condizione necessaria per un partito per avere un ruolo politico, accesso ai fondi, ottenere determinate cariche politiche, come le presidenze delle Commissioni, e incidere davvero sul processo legislativo. Al contrario, essere “non-attached”, cioè non avere affiliazione con nessun Gruppo significa non contare nulla e essere automaticamente esclusi dai giochi, assistendo passivamente alla vita politica dell’Unione, indipendentemente dal numero di parlamentari che si è riusciti a far eleggere o dal consenso di cui si gode a livello nazionale. 

In vista delle imminenti elezioni, sarebbe auspicabile che tutti i partiti mettessero in evidenza – accanto al loro simbolo – anche quello della famiglia politica europea di appartenenza, in modo da aumentare la consapevolezza degli elettori verso la sempre maggior centralità di Bruxelles. Questa operazione di co-branding, semplice ma efficace, permetterebbe all’elettore di comprendere immediatamente a quale famiglia europea appartiene e a quale “spitzenkandidat” sta dando la fiducia.

* Luigi Ferrata, autore di questo articolo/ragionamento è Managing Partner, Rud Pedersen Public Affairs Italy

 

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