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Infrastrutture: connettere l’Italia tra ritardi e speranze

Realizzare infrastrutture in Italia richiede, in media, cinque anni.
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Velasco25 Articolo

Realizzare infrastrutture in Italia richiede, in media, cinque anni. Un tempo non accettabile e frutto di una macchina amministrativa piena di gangli che si sostanzia in 27 pareri autorizzativi.

Occasione storica, prospettiva irripetibile. Però stavolta è l’ultima chiamata. Senza scomodare Gaetano Salvemini e la questione meridionale, non c’è dubbio che l’Europa ci abbia offerto, su un piatto d’argento, l’ultimo rilancio possibile: portare ovunque l’alta velocità ferroviaria, soprattutto al Sud. Da Napoli a Bari, da Salerno a Reggio Calabria, da Catania a Messina e Palermo. Ma anche il nord del Paese ha bisogno di un salto: da Milano a Genova, da Verona a Venezia. È l’ultimo treno – metafora ghiotta – per connettere il Mezzogiorno al resto del Paese. Portando a Palermo la metropolitana d’Italia che ora non si ferma ad Eboli, ma quasi.

Per farlo i soldi ci sono e non sono mai stati così tanti. Le competenze ingegneristiche pure, le approvazioni anche, spesso troppe e sovrapposte. Però l’assegno circolare da 25 miliardi del Pnrr girato a Rfi, il gestore della rete controllato da Ferrovie dello Stato, è per una buona parte destinato a progetti per il Sud, area in grande ritardo in termini di connessione.

Tanti, tantissimi soldi, ma sono solo una parte dei fondi che il gruppo Ferrovie dello Stato, guidato da Stefano Antonio Donnarumma e controllato dal ministero dell’Economia, ha accantonato per il suo piano strategico. Di questi, a fine 2024, sono stati consuntivati, dunque spesi, 12 miliardi, di cui circa il 31% per le opere infrastrutturali su nuovi progetti. Le risorse sono state suddivise per categoria di intervento, con una quota destinata a progetti infrastrutturali già in corso e in fase realizzativa (7,8 miliardi), mentre una parte rilevante è stata impiegata per l’avvio di nuove opere (3,5 miliardi).

Le priorità restano la modernizzazione e il potenziamento della rete ferroviaria, certo. Guardando nel dettaglio come gli incassi derivanti dai fondi europei sono stati spesi, la sintesi è questa. Rfi è impegnata nel mettere a terra circa 3,4 miliardi ripartiti tra linee alta velocità (1,6 miliardi), Ertms (660 milioni), cioè il sistema di gestione del traffico ferroviario e segnalamento a bordo, progettato per sostituire i molteplici, e incompatibili, sistemi di circolazione. Altri soldi sono stati stanziati per le principali nodi e direttrici (240 milioni), per interventi di elettrificazione e potenziamento infrastrutturale (720 milioni), per le stazioni al Sud (104 milioni) e per le ferrovie regionali di altri gestori (20 milioni).

I cantieri sono partiti e sono circa 1.200, mole ingente che ha determinato (e determinerà) anche pesanti ritardi sul traffico passeggeri. La storia d’Italia però è piena di propositi ambiziosi, e troppi sono stati finora i fallimenti per non essere scettici.

Le doglianze ormai appartengono al passato e, ora, prima di esprimerle occorre aspettare una prima data: il 2026, l’anno prossimo, quando l’orizzonte dei fondi europei dettati dall’emergenza Covid si esauriranno.

La linea Napoli-Bari è al livello più avanzato. Nel 2027 dovrebbe collegare le due città in appena due ore, Roma a Bari in circa tre. La stazione di Afragola, snodo nevralgico della linea, è già realtà e fa intravedere le potenzialità del nuovo tracciato. Sulla Palermo-Catania, dopo uno slittamento iniziale per consentire una rivisitazione progettuale, è partita la tabella di marcia. Investimento di 9,3 miliardi finanziati con i fondi del Pnrr per 1,44 miliardi. Ma il vero salto si realizzerebbe con la Salerno-Reggio Calabria. Per il tracciato stradale ci sono voluti decenni. Per quello ferroviario l’orizzonte realistico è fissato almeno al 2030. Qui siamo ben oltre i tempi europei, ma si tratta di un’opera da 22 miliardi.

Cinque anni è la media per realizzare un’opera infrastrutturale nel nostro Paese. Un tempo non accettabile. Ma la macchina amministrativa dello Stato è storicamente piena di gangli, si sostanzia di 27 pareri autorizzativi che transitano da diversi ministeri: Beni culturali, Trasporti, Tesoro, Ambiente e passano attraverso il via libera degli enti locali come Regioni e Comuni e necessitano degli ok delle Authority come Corte dei Conti e Anac.

Per realizzare qualunque infrastruttura bisogna partire dalla fase di pianificazione e programmazione, poi dalla progettazione di fattibilità tecnica ed economica e poi superare i vari processi autorizzativi. Infine si arriva all’effettiva realizzazione dopo il via libera al progetto definitivo che passa dalle maggiori stazioni appaltanti del Paese come Anas e Rfi, entrambe sotto la capogruppo di Ferrovie dello Stato. Inevitabilmente entrambe si legano alle risorse disponibili nei due contratti di programma.

Generalmente si fanno dei piani triennali che spesso saltano. Quindi si va per rimodulazioni. Restano sempre in eredità le opere non realizzate il cui interesse però permane. Capita spesso che le Regioni – ove quelle opere insistono – facciano delle proposte di inserimento e quindi ciò innesca un rapporto costante col territorio che finisce però per dilatare i tempi.

Ogni progetto deve passare da un’analisi costi-benefici che determina un progetto di fattibilità tecnico-economica. Quando c’è da realizzare una strada si procede ad un’analisi di traffico esteso su un arco temporale di proiezione futura. È una fase lunga sottoposta ad oscillazioni, verifiche, abbandoni anche di opere preventivamente immaginate come funzionali. Tutto quello che, con i soldi del Pnrr, non possiamo permetterci.

L’articolo originale è stato pubblicato sul numero di Fortune Italia dell’aprile 2025 (numero 3, anno 8)

 

 

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