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Il logo alla portata di tutti: la strategia del ‘lusso accessibile’

Nell’era in cui tutti si mostrano su Instagram, vendendo se stessi come si vende un brand, il logo è tornato ad avere un peso. Se c’è una cosa che il mondo della moda sembra averci trasmesso nel 2018, è l’importanza del logo. Lo scorso anno, infatti, abbiamo assistito a un revival, nessuna casa di moda esclusa: Fendi, Burberry, Gucci hanno “ripescato” dagli archivi i loghi vintage e li hanno sfoggiati su tutte le passerelle in modo sfrontato. La tendenza ha travolto non solo il super lusso, ma anche lo sportwear, tornato agli anni ’90. La tendenza del 2019 farà un passo in avanti: renderà il logo accessibile alle masse, in un ossimoro che il blogger Venkatesh Rao ha definito “premium mediocre”, e che noi potremmo intendere come “lusso accessibile”. Dall’acqua Evian firmata Chiara Ferragni (8,50 euro la bottiglia) al berretto con visiera di Balenciaga, dalle matite di Gucci al portachiavi di Burberry. Sono solo alcuni degli oggetti creati appositamente per offrire a chi non può permettersi il cappotto di Burberry o gli stivali di Gucci di “accedere” in qualche modo al brand. Insomma, di mettere piede nel negozio, di illudersi di aver “assaggiato” un pezzo di lusso e di credere fermamente di farne parte.

Questa strategia del lusso accessibile di certo non è nuova: pensiamo alle collezioni di make up di aziende come Chanel o Dior, anche quelle si possono considerare come un piccolo assaggio di lusso. Nella storia della moda, inoltre, molti stilisti hanno prestato il loro nome a collezioni di massa, di fatto svalutando il brand, per poi impiegare anni per ricostruire la reputazione. Ma non è il caso dei prodotti “premium mediocri” che troviamo in circolazione oggi. La differenza è la cultura che accompagna l’esperienza di acquisto di questi prodotti: una cultura che appartiene ai cosiddetti “millennials”, e che, come abbiamo detto, è fortemente influenzata dai social media.

Oggi l’esperienza che accompagna l’acquisto è considerata più importante del prodotto stesso, che ormai si può trovare online in qualsiasi momento. Il negozio, se vuole avere successo, deve dare qualcosa che il web non offre, e per il quale il cliente è disposto a spendere di più. Un’esperienza, appunto, per la quale si può entrare nel negozio-museo-ristorante Gucci Garden di Firenze anche solo per un caffè o per acquistare una scatola di matite o una cover per cellulare (con il logo, naturalmente). La strategia è semplice: applicare il marchio a qualcosa che non è il core-business dell’azienda per permettere a tutti di acquistare il brand, seppur con oggetti minori. Se in pochi possono acquistare gli stivali di Givenchy, molti di più saranno coloro che potranno permettersi le ciabatte di gomma vendute dal brand. Se il prezzo di cartellino di una borsa da viaggio di Louis Vuitton equivale all’intero stipendio di alcuni, lo stesso non si può dire di un più modesto portachiavi: questo segmento di oggetti è in crescita. Secondo l’Euromonitor International i piccoli oggetti in pelle hanno smosso vendite per 5,7 miliardi di dollari nel 2015, con una proiezione di crescita fino a 7,5 miliardi entro il 2020.

Inoltre, il filone della fast fashion ha reso la cura dell’immagine e il cambio d’abito alla portata di tutti: il tutto è finalizzato alla cura del proprio profilo social, che è poi il nostro brand, il nostro marchio di fronte al “cliente” che dovrebbe essere il nostro datore di lavoro. Oggi tutti si sentono di “meritare” un accesso al mondo del lusso, proprio perché le distanze si sono accorciate, le collaborazioni con il fast fashion (pensiamo alle capsule-evento che ogni anno lancia H&M e che vanno sold out in pochi minuti), e l’offerta di piccoli oggetti dai grandi brand (dal profumo al porta-passaporto, ma anche la birra firmata o l’hamburger consigliato dal grande imprenditore) hanno diffuso l’idea che tutti, di fatto, potessero accedere alla grande firma. In una grande illusione che, però, come strategia di marketing funziona. E vende.

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