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Pensaci prima del prossimo like

Barbara Laurenzi

Barbara Laurenzi

Tutti lo sanno. Ma nessuno lo dice. Che alcuni social network, Facebook e Twitter in particolare, siano diventati lo strumento prediletto di chi desidera veicolare informazioni distorte e propagandistiche è ormai evidente.

Non ha stupito quindi la cancellazione di 23 pagine italiane, gran parte delle quali a sostegno dei due partiti di Governo, annunciata da Facebook lo scorso 13 maggio. Non ha stupito, ma dovrebbe indurre a pensare. Già, perché queste pagine condividevano informazioni totalmente false e contenuti divisivi contro i vaccini e i migranti, oltre a veicolare idee antisemite.

Non-argomenti attraverso i quali erano arrivate a generare oltre 2,44 milioni di interazioni solamente negli ultimi tre mesi, totalizzando quasi due milioni e mezzo di follower. Ossia più delle pagine ufficiali di Lega e Movimento 5 Stelle messi insieme (la prima si ferma a 506mila like, la seconda tocca 1,4 milioni).

Quanto se ne è parlato? Poco. Il tempo di un caffè. Eppure è urgente il dibattito su quanto il mondo della rete sia ormai drogato da fenomeni di questo tipo. E su quanto siano alimentati dalla spasmodica ricerca – spesso ad opera proprio dei professionisti della comunicazione e del giornalismo – della notizia più cliccata. Più vista. Più virale. Spesso, la più falsata.

Lo scandalo Cambridge Analytica aveva già rivelato come internet, da templio di libera circolazione delle idee, possa diventare la Pravda del nuovo millennio. Molto più affascinante, certo. Ma per questo anche molto più subdola.

Guardian e New York Times avevano dimostrato l’uso scorretto dei dati prelevati da Facebook da parte dell’azienda di consulenza, evidenziando i suoi legami con la campagna elettorale statunitense – che ha visto trionfare Donald Trump nel 2016 – così come con quella referendaria per la Brexit nel Regno Unito. Il Leave avrebbe vinto ugualmente? E a Washington oggi ci sarebbe comunque il tycoon? Non lo sapremo mai.

Il problema ovviamente non si ferma Oltreoceano. Riguarda anche noi. Ben prima delle 23 pagine chiuse da Facebook, esattamente un anno fa, accadeva qualcosa di simile. Ricorderete tutti gli attacchi al Presidente della Repubblica – al grido social di #mattarelladimettiti – quando si oppose alla nomina di Paolo Savona come ministro dell’Economia. Quanti ricordano, però, che le indagini della polizia postale hanno evidenziato un picco di 400 profili finti creati nella notte tra il 27 e il 28 maggio per chiedere la testa del Quirinale?

Anche in questo caso, se ne è parlato troppo poco. Eppure dalle indagini è emerso perfino come alcuni dei profili coinvolti nella gogna digitale contro il Capo dello Stato, appartenenti a italiani del tutto ignari, siano stati usati in passato dall’Internet Research Agency russa per far filtrare la propaganda sovranista e pro-Putin in Europa. Ci preoccupiamo della sicurezza nazionale quando aumentano gli sbarchi in Sicilia. Dovremmo preoccuparci altrettanto quando un Paese straniero riesce a infiltrarsi nelle nostre identità in rete per perseguire obiettivi politici.

I social come strumento di propaganda non possono più essere derubricati a fenomeno laterale, buono per gli addetti del settore. Quando chi siede in Parlamento, che sia maggioranza o opposizione, è espressione di un’opinione pubblica che si forma in larga parte sui social network, non è più possibile voltarsi dall’altra parte.

La realtà è rappresentazione. Ce lo ha insegnato Schopenhauer. Una riflessione oggi più che mai valida.

Il primo passo per contrastare la distorsione della rete parte dal nostro utilizzo dei social. Dalla consapevolezza che ogni nostra condivisione porta un ‘accreditamento’ al profilo o alla pagina di provenienza.

Non diamo credito a ciò che non ne ha. Non diamo spazio a messaggi che siano violenti, brutali, aggressivi.

E tu ci penserai, prima di mettere il tuo prossimo like?

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