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Come cambiare il mondo con il design thinking

design thinking

Fondata nel 1991, la società internazionale di design Ideo ha creato prodotti utili e radicali, dal mouse dei computer Apple ai sistemi di somministrazione di insulina per Eli Lilly. L’azienda è anche diventata una delle più famose nell’adozione del ‘design thinking’, un approccio collaborativo per risolvere problemi aziendali, che approfondisce le interazioni tra lavoratore e tecnologia, cliente e prodotto, in modi innovativi e creativi.

Nel suo bestseller del 2009, ‘Change by design’, il presidente e Ceo di Ideo Tim Brown, con il suo collega Barry Katz, ha evangelizzato il design thinking nel mondo degli affari. In una nuova edizione, pubblicata a marzo, dimostra che la pratica può essere adottata su più ampia scala per affrontare anche i problemi più complicati della società.

Articolo di Tim Brown, presidente e Ceo di Ideo, e Barry Katz, membro di Ideo e professore di design al California College of Arts.

Quando abbiamo pubblicato ‘Change by Design’ una decina di anni fa, abbiamo deciso di mettere al centro due tematiche. In primo luogo, il design thinking consente di usare il design per affrontare le sfide che si presentano alle imprese e alla società; mostra come un approccio creativo di risoluzione dei problemi, che mette al centro l’uomo, offre la promessa di soluzioni nuove e più efficaci. In secondo luogo, il design thinking va oltre le abilità acquisite dal designer professionista e dovrebbe essere a disposizione di chiunque desideri fare propri i suoi schemi mentali.

Da allora, aziende, organizzazioni e istituzioni accademiche in ogni parte del mondo hanno abbracciato l’insieme di approcci che chiamiamo design thinking. Alcune delle più influenti aziende tecnologiche – Apple, Alphabet, Ibm, Sap – hanno spostato il design nel cuore delle loro operazioni. I designer fanno parte dei team che hanno fondato le startup dirompenti della Silicon Valley e del resto del mondo. I sistemi di assistenza sanitaria, le società di servizi finanziari e le società di consulenza manageriale ora impiegano regolarmente i designer, mentre gli insegnanti portano il design thinking ovunque, dalle scuole materne ai licei.

Il design thinking ha davvero raggiunto la maggiore età. Eppure non dovremmo affrettarci a congratularci con noi stessi, perché ci viene giustamente chiesto come impiegarlo affinché possa realmente avere un impatto significativo.

Questa domanda ha una particolare importanza quando il design incontrea la tecnologia, dove i modelli di business dei social media, dell’intelligenza artificiale e di Internet rivelano i loro lati oscuri. Il design thinking non è una ‘mano invisibile’: i progettisti hanno la responsabilità di comprendere gli obiettivi per i quali fanno i loro progetti. Questo è un momento per la ‘mano visibile’ del design di prendere decisioni sul modo in cui desideriamo che la tecnologia serva l’umanità.

Quali sono i problemi sui quali i progettisti, in collaborazione con la popolazione dei design thinkers, dovrebbero orientare le energie? Mentre ci addentriamo nel XXI secolo, diventa sempre più chiaro che la maggior parte dei nostri sistemi sociali non è più in linea con lo scopo per i quali sono nati. Sono stati progettati per soddisfare i requisiti della prima era industriale e sono rimasti sostanzialmente immutati dall’inizio del XX secolo. Quale potrebbe essere l’impatto se riuscissimo ad applicare con successo le nostre capacità di design thinking ai veri e propri ‘grandi problemi’ di oggi?

Dopo il lavoro svolto da Ideo nell’ultimo decennio, possiamo identificare un insieme di dilemmi per i quali il design ha iniziato a tracciare soluzioni promettenti, anche su ampia scala.

Ridisegnare le istituzioni

Una groosa opportunità è arrivata nel 2011, sottoforma di una richiesta di un uomo d’affari peruviano, Carlos Rodriguez-Pastor. Nelle classifiche che tengono in considerazione le capacità scientifiche, matematiche e di lettura, il Perù si colloca costantemente alla base della piramide globale; in mancanza di una forza lavoro istruita, il Paese rischiava di sperperare le opportunità derivanti dalla sua rapida crescita economica. Rodriguez-Pastor non voleva altro che progettare un nuovo sistema educativo, accessibile a una classe media emergente, ma non ancora benestante, implementabile in tutto il paese.

La prima fase di qualsiasi processo di progettazione centrato sull’uomo è comprendere la portata del problema. In Perù, ciò ha richiesto la messa in campo di un gruppo di ricerca i cui membri si sono letteralmente calati nella vita di tutti i giorni della popolazione interessata: insegnanti e amministratori; dirigenti aziendali e funzionari del ministero dell’Istruzione; genitori e, naturalmente, gli stessi scolari. Utilizzando osservazioni interne, interviste di gruppo, storie sul campo, visite in loco e dati concreti, il team ha formulato una valutazione del problema, i vincoli che lo circondavano e le opportunità che offriva. Poi sono passati alla parte pratica.

Il team dedicato ha creato non solo una strategia ma i mezzi per implementare e gestire un sistema scolastico completo: curriculum, tecniche e risorse didattiche, sviluppo degli insegnanti, edifici, piani operativi, sistemi di condivisione dei dati, e un modello finanziario progettato per consentire alle scuole di addebitare un modesto canone mensile di 130 dollari. Un’idea visionaria non sostenibile attraverso i meccanismi di mercato classici rimarrà probabilmente tale: una visione.

L’anno scolastico 2018 si è aperto con 49 Innova Schools in Perù, alle quali si sono iscritti più di 37mila studenti, per un totale di 2mila insegnanti; un progetto pilota adattato è stato fatto partire anche in Messico.

Quello che abbiamo imparato in Perù è il valore – anzi, l’imperativo assoluto – della progettazione integrata di interi sistemi, della comprensione di un problema al suo livello più profondo, collocandolo in un contesto ampio e mobilitando i campi di competenza necessari per affrontarlo. Un’altra intuizione chiave: le scuole, non meno di occhiali da sole, segnali stradali o motorini, sono frutto di progettazione – e come qualsiasi altro artefatto della nostra civiltà, il loro design potrebbe essere buono o insufficiente, o potrebbero essere state progettate per affrontare sfide che oggi non sono più attuali.

Dean Logan è il cancelliere della Contea di Los Angeles – un ruolo che in teoria ha poco a che fare con il design. In questa veste, supervisiona la più ampia giurisdizione elettorale Usa, con una popolazione di elettori superiore a quella di 42 dei 50 stati degli Stati Uniti e che deve essere supportata in più di una dozzina di lingue. Logan si è posto una semplice domanda: “potremmo progettare un nuovo sistema di voto, uno che funzioni per tutti gli elettori?”. Ridisegnare la democrazia? Nessun problema!

In passato, ciò avrebbe significato inquadrare il problema come la riprogettazione di un sistema per votare vecchio di 50 anni. Non esiste un designer che non onori la singola creazione, tuttavia i designer oggi stanno imparando a pensare non solo in termini di prodotti stand-alone ma anche di sistemi, le complesse reti sociali di significato, comportamento e potere all’interno delle quali sono incorporati i prodotti. Stiamo imparando a non pensare ai sostantivi (“come potremmo progettare una migliore macchina automatica per il voto?”) ma ai verbi: “quale potrebbe essere un modo per migliorare l’esperienza democratica?” Quando ci concentriamo sui nomi, ci chiudiamo in un atteggiamento mentale incrementale: uno spazzolino da denti migliore, una sedia da scrivania più comoda, un condizionatore più silenzioso. Ma quando pensiamo ai verbi, scoperchiamo il problema e siamo in grado di affrontarlo in tutta la sua complessità, che è sempre stata la condizione di vera innovazione.

Il progetto di riferimento che alla fine abbiamo creato, in collaborazione con la contea di Los Angeles e la Digital Foundry, è frutto sia di uno studio nelle scienze sociali e comportamentali che di ingegneria meccanica e software. Il team ha trascorso centinaia di ore osservando, ascoltando, intervistando e effettuando test per comprendere quali sono le motivazioni che le persone portano alle urne. Hanno incontrato gli elettori costretti in sedia a rotelle, quelli con disabilità mentali e i non vedenti (persino Stevie Wonder ha collaborato per aiutare a convalidare uno dei modelli). Hanno osservato i lavoratori che caricano le macchine sui camion, che le consegnano a 4.800 postazioni elettorali, e intervistato i volontari che le montano una volta arrivate. Hanno identificato sia gli ostacoli fisici che quelli intangibili legati alla sicurezza, alla privacy e alla fiducia e hanno imparato a destreggiarsi nel complicato mondo politico, legislativo e normativo. Sulla base di questa vasta ricerca, il team ha articolato una serie di principi di progettazione, li ha testati su dozzine di prototipi e alla fine ha creato un modello di lavoro guidato da una filosofia unica e dominante: una macchina per tutti.

Il ‘Progetto Vox’ risolverà il malessere che affligge la democrazia americana? Probabilmente no. Ma impareremo molto quando i 31mila nuovi dispositivi per votare verranno lanciati in tempo per le elezioni del 2020.

Ridisegnare il design stesso

Le continue ondate di nuova tecnologia e l’integrazione implacabile dell’universo connesso di oggi ci spingono ad applicare il design thinking a sistemi sempre più complessi. Il team ‘Future of Automobility’ di Ideo ha proposto di prendere in considerazione le tecnologie alla base del sistema di guida autonoma – ciò che realisticamente può fare o non si può pretendere che faccia – e considerare i modi in cui la tecnologia potrebbe rimodellare le nostre città. Con Datascope, una società di data-science che abbiamo acquisito lo scorso anno, abbiamo lanciato una nuova pratica che abbiamo chiamato D4AI, o ‘Design for Augmented Intelligence’, che mira a garantire che la prossima generazione di prodotti intelligenti – telefoni, automobili, abbigliamento, farmaci e servizi – ci impegni in modi dinamici, flessibili e sensibili ai ritmi della vita quotidiana. Ma forse il compito più impegnativo nell’agenda dei progettisti – e dei design thinkers – è rendere possibile l’economia circolare. Il mondo moderno è stato fondato sul presupposto che le nostre risorse siano infinite e inesauribili: chi avrebbe potuto immaginare che un giorno saremmo potuti rimanere senza petrolio? O foreste? O pesce? O spazi vuoti per smaltire i sottoprodotti della nostra prosperità materiale? Ma questa è esattamente la situazione in cui ora ci troviamo, bloccati in un’economia lineare che inizia in una miniera, in una cava o su una piattaforma petrolifera e finisce in una discarica.

Un’economia circolare, al contrario, mira a conservare e recuperare il maggior valore possibile da prodotti, parti e risorse. La nostra capacità di ridisegnare i sistemi industriali in modo che siano rigenerativi, di trasformare i rifiuti in materie prime per la prossima generazione industriale e ripensare l’assunto secondo il quale i cicli di vita dei prodotti debbano avere un inizio, un intermezzo e una fine, sarà il metro con il quale verrà misurata e giudicata la nostra generazione.

La transizione verso un’economia circolare rigenerativa è un obiettivo dichiarato dell’Unione europea e della Cina, e un elenco crescente di società con portata globale, come Apple, Philips, Steelcase e L’Oréal, si stanno impegnando ad implementarla. Nel 2017, Ideo ha stretto una partnership con la Ellen MacArthur Foundation con l’obiettivo di produrre una road map per le imprese. Attraverso la nostra ‘Circular economy guide’ (disponibile gratuitamente online), abbiamo iniziato a coinvolgere i leader del settore nella ricerca di un modello di business che crei nuovo valore, produca prosperità economica a lungo termine e stabilità ecologica – e produca un profitto. E ora siamo nella posizione di proporre misure concrete e pratiche che possano essere prese a modello, provate e implementate.

Chi avrebbe mai pensato, quando i primi grafici tiravano fuori una pagina stampata, quando la prima generazione di designer digitali si cimentava con i misteri del web, che in virtù delle loro pratiche non ortodosse, avrebbero avuto anche loro un giorno un ruolo importante nell’affrontare sfide così urgenti e complesse?

Ma è esattamente quello che è successo, e adesso siamo faccia a faccia con la sfida più grande di tutte: ridisegnare il design per soddisfare nuovi bisogni.

Articolo di Tim Brown, presidente e Ceo di Ideo, e Barry Katz, membro di Ideo e professore di design al California College of Arts. Articolo apparso sul numero di Fortune Italia di aprile 2019.

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