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Sangue, sudore e batterie: viaggio nelle miniere di cobalto

Due terzi del cobalto mondiale, materia prima essenziale per smartphone e auto elettriche, arriva da uno dei paesi più poveri del pianeta, la Repubblica Democratica del Congo. Troppo spesso viene estratto dai bambini

Articolo di Vivienne Walt apparso sul numero di Fortune Italia di ottobre 2018.

 

LA MAGGIOR PARTE DEI SUOI VICINI di casa dorme ancora alle 5 del mattino, quando Lukasa si alza per iniziare la sua giornata lavorativa di 12 ore. Esile quindicenne con il viso ovale e lo sguardo penetrante, scivola fuori dalla casa di mattoni e fango della sua famiglia prima dell’alba, sei giorni a settimana. Seguono due ore di cammino, dal suo piccolo villaggio nella regione sud-orientale della Repubblica Democratica del Congo a un sito minerario di proprietà del governo (Fortune non rivela il nome del villaggio per proteggere Lukasa e altri bambini). Una volta in miniera, Lukasa trascorre otto ore a scavare in un buco per raccogliere pezzi di un minerale che è fondamentale per mantenere le nostre vite moderne in movimento: il cobalto.

Verso le tre del pomeriggio, Lukasa ha riempito un sacco con il bottino del giorno. Solleva sulla sua schiena il carico, che pesarà circa 10 Kg, e lo trascina per un’ora a piedi fino ad un deposito commerciale. “Lo vendo ai cinesi”, dice, riferendosi agli acquirenti delle società cinesi che commerciano materie prime e dominano il mercato nell’area. Lukasa indossa una maglietta con la scritta Prada sul davanti ed è seduto all’ombra di un albero, nel suo villaggio, mentre nel suo giorno di riposo racconta la sua routine. Con un pizzico di orgoglio, dice: “Nei giorni buoni arrivo a guadagnare anche 15.000 franchi”. L’equivalente di circa 9 dollari.

Dal suo punto di vista, in uno dei Paesi più poveri del mondo, Lukasa non è realmente consapevole che è in atto una corsa multimiliardaria per il metallo grigio che scava dal terreno circa 300 giorni all’anno. Lukasa racconta che solo di recente ha iniziato a capire che i suoi guadagni nelle miniere di cobalto sono una miseria rispetto alle somme che fanno i commercianti vendendo il metallo sul mercato mondiale. Ma questo business è difficile da capire per chi vive vicino a Kolwezi, il centro povero dell’industria del cobalto in Congo. È ancora più difficile per gli scavatori che vivono in povertà, come Lukasa, capire un’impennata della domanda per il minerale che ha fatto salire il prezzo del cobalto sui mercati delle materie prime del 400% circa, da circa 10 dollari alla libbra nel 2016 ad un massimo di circa 44 dollari in aprile (2018, ndt). La crescente appetibilità del cobalto è figlia dell’odierna economia guidata dai dispositivi tecnologici: il metallo è un componente chiave delle batterie a ioni di litio che alimentano milioni di smartphone, computer e tablet. Il cobalto fornisce una stabilità e un’alta densità energetica che consente alle batterie di funzionare in sicurezza e per periodi più lunghi. Senza il cobalto le nostre vite digitali – almeno per il momento – non potrebbero funzionare allo stesso modo. Benché sia così prezioso e nonostante il ruolo cruciale che ha, solo ora il reale valore del cobalto comincia a venire alla luce.

La transizione globale verso le rinnovabili – il più vasto spostamento di energia dell’ultimo secolo – potrebbe dipendere in buona misura da quanto sarà prontamente disponibile il cobalto nei prossimi anni e da quanto costerà produrlo e raffinarlo. Dal momento che molti governi in tutto il mondo, a parte quello di Washington, cominciano a implementare i propri target sui cambiamenti climatici per ridurre le emissioni di carbonio, le case automobilistiche hanno incrementato notevolente la produzione di veicoli elettrici. La General Motors, ad esempio, nei suoi progetti tiene conto di un futuro tutto elettrico. E Volkswagen punta a convertire un quarto della sua produzione ai veicoli elettrici entro il 2025. In assenza di un’invenzione rivoluzionaria nella tecnologia delle batterie, ogni batteria di un veicolo elettrico avrà bisogno di circa 18 libbre di cobalto – oltre 1.000 volte il quarto di oncia di cobalto in uno smartphone. La Volkswagen, ad esempio, prevede che entro un decennio dovrà costruire sei gigantesche fabbriche di batterie solo per rifornire i suoi impianti di auto elettriche.

Ciò significa che l’era del cobalto potrebbe essere appena iniziata. Solo che per le batterie agli ioni di litio, la richiesta di cobalto potrebbe triplicare entro il 2025, per poi raddoppiare di nuovo, raggiungendo circa 357 mila tonnellate all’anno entro il 2030, quasi sette volte il livello attuale, secondo la società londinese Darton Commodities. Sul posto, in Congo, la pressione per produrre cobalto ha raggiunto livelli febbrili. “Se vuoi essere il re del mondo nei prossimi 10 anni devi avere il cobalto”, dice Jean-Luc Ka-hamba Kukenge, vicedirettore generale della miniera congolese Commus Global, di proprietà del cinese Zijin Mining Group, quando lo incontro a Kolwezi. “Nei prossimi 10 anni, il cobalto sarà tutto”.

Non è di certo la prima volta che si fa affidamento su un singolo materiale: l’industria delle automobili deve la sua stessa esistenza all’estrazione del petrolio greggio dalla terra. Ma c’è una differenza fondamentale tra la rivoluzione delle auto iniziata un secolo fa e la rivoluzione dei veicoli elettrici che muove i suoi primi passi adesso. I giacimenti di petrolio sono sfruttati in dozzine di paesi e si trovano sotto ogni oceano. Al contrario, le riserve di cobalto finora sono fortemente concentrate in un pugno di terra. Peggio ancora, quel territorio si trova all’interno di un paese assediato da conflitti, corruzione, povertà e disfunzioni: la Repubblica Democratica del Congo, o RDC, ex colonia belga. Questa realtà pone urgenti e complicati problemi etici per le industrie tech, di automobili e per le società di estrazione mineraria che hanno bisogno di cobalto. Problemi che, se non vengono risolti, potrebbero minare la capacità stessa di quelle aziende di portare milioni di consumatori a utilizzare un’energia più pulita.

I DUE-TERZI DEL cobalto del mondo sono prodotti nella provincia sud orientale di Lualaba, vicino al confine con lo Zambia. La regione si trova in cima a una complessa vena mineraria conosciuta come Copperbelt e il cobalto è principalmente un sottoprodotto dell’estrazione del rame e del nichel. Circa l’80% delle entrate della RDC arrivano dai giacimenti minerari. Per la RDC si può letteralmente parlare di “maledizione delle risorse”. Nonostante le enormi ricchezze di stagno, oro, nichel, rame e ora cobalto, il cittadino medio guadagna solo 700 dollari all’anno.

La quotidianità è estremamente difficile per i milioni di congolesi che non hanno acqua corrente o elettricità in casa; l’aspettativa di vita media è di circa 60 anni. Nel 2015 la RDC si è posizionata al 176° posto su 188 paesi nella classifica stilata dalle Nazioni Unite sull’Indice di sviluppo umano.

E non è andata molto meglio con l’indice anti-corruzione elaborato dalla Ong Transparency International, che menziona un clientelismo sfrenato in una piccola élite, guidata dal presidente Joseph Kabila, il quale detiene il potere da quasi 18 anni. Kabila ha scelto un alleato stretto come suo successore, alle elezioni di dicembre, che potrebbero essere palcoscenico di violenze.

Quando il nostro piccolo aereo si ferma, in un pomeriggio invernale a metà luglio, sulla pista di atterraggio di Kolwezi, capitale della provincia di Lualaba, nulla suggerisce che siamo appena sbarcati nell’epicentro della ricchezza mondiale del cobalto. Una piccola struttura a blocchi di cemento funge da ‘Aéroport National de Kolwezi’, come segnala un cartello dipinto a mano.

Nel 2016, ero atterrata nello stesso posto, in trasferta per Fortune, viaggiando su un aereo da otto posti affittato dal gigante Svizzero delle materie prime Glencore. Durante quel viaggio, i rappresentanti della società mi portarono nel luminoso e climatizzato impianto di produzione di cobalto di Mutanda Mining, il più grande al mondo, ricco di una tecnologia all’avanguardia e un meticoloso sistema di gestione aziendale, che sembrava quasi un pianeta alieno in mezzo alla caotica galassia al di là delle porte. Il Ceo di Mutanda, Pedro Quinteros, un esperto ingegnere peruviano, mi disse che la concentrazione minerale nel Copperbelt del Congo era così alta che non aveva “mai visto nulla di simile nella sua carriera”.

Ora sono tornata per vedere l’altro lato della medaglia. Glencore estrae ed esporta ancora più cobalto di qualsiasi altra azienda al mondo, e afferma che prevede di raddoppiare la sua produzione nei prossimi due anni in previsione di un incombente calo globale dell’offerta.

Quella produzione su scala industriale sminuisce l’attività degli oltre 100 mila cosiddetti minatori artigianali di cobalto attorno a Kolwezi, scavatori indipendenti tradizionali che si sono recati nell’area per cercare il cobalto, spesso con strumenti primitivi. Gli scavatori includono un numero imprecisato di ragazzi come il 15enne Lukasa, che mantengono le loro famiglie estraendo piccole quantità di cobalto a mano, per poi venderlo agli intermediari, praticamente tutti cinesi; i bambini in un piccolo villaggio vicino a Kolwezi ci salutano in cinese dicendo “Ni hao!” dal momento che gli unici non africani che hanno visto provengono prevalentemente dalla Cina.

Anche se è impossibile sapere quanti siano i minatori minorenni, gli attivisti congolesi che lavorano per porre fine al lavoro minorile dicono che la povertà ha fatto crescere i numeri. “A causa della crisi economica, ce ne sono circa 10 mila”, dice Hélène Kayekeza Mutshaka, che coordina un programma di monitoraggio a Kolwezi che il governo ha fatto partire lo scorso anno per cercare di fermare il lavoro minorile nelle miniere. Mutshaka spiega che trova una forte resistenza da parte delle famiglie povere, che ormai da tempo mandano i propri figli a scavare minerali per integrare i loro magri guadagni. “Credono di poter entrare a far parte della classe media lavorando come minatori artigianali”, afferma Mutshaka.

Intorno a Kolwezi, questo sembra un sogno quasi irrealizzabile.

Una mattina di luglio, ai margini di una miniera artigianale chiamata Kingiamiyambo, circa otto miglia fuori da Kolwezi, incontriamo Daniel, un ragazzino di 11 anni che sale sulla collina dal sito di scavo, incrostato di polvere e carico di cobalto sulle spalle, mentre s’incammina per andare a vendere il bottino ai commercianti cinesi; ci dice che non ha mai frequentato la scuola. I bambini come Daniel lavorano alla base della piramide del mercato globale del cobalto. Per le loro famiglie, molte delle quali dipendono dalle minime somme che i loro figli portano a casa, sembra esserci poca speranza di un miglioramento della qualità della vita. Tuttavia, chiedere loro di fermare l’attività mineraria sembra altrettanto difficile, almeno fino a quando il cobalto continua a essere una veloce fonte di reddito. “Cosa dovrebbero fare questi bambini che rimangono a casa senza lavoro?” chiede a Jean Pierre Muteba, un minatore di rame veterano che dirige un’organizzazione nel sud della RDC che controlla il settore minerario, la New Dynamics. “Cercheranno la sopravvivenza e cos’è la sopravvivenza qui? – prosegue – È ovvio: la miniera della porta accanto”.

Nonostante le condizioni estenuanti, per i bambini la tentazione di continuare a lavorare è forte.

Molti guadagnano solo 2 dollari al giorno, spesso come ‘muli umani’ per gli scavatori. “Quando i bambini non vanno a scuola, vanno tutti a lavorare nelle miniere”, dice Franck Mande, che supervisiona un progetto finanziato da Apple che mira a insegnare ai bambini minatori nuove abilità. “Lavorano da 14, 15, 16 anni, anche da 10 anni”, dice Mande.

Le autorità congolesi dicono di star cercando di eradicare questo business minorile, ma sembrerebbe essere quasi impossibile riuscire a fermarlo completamente. E sottolineano che i minatori artigianali – la grande maggioranza adulti – incidono solo per il 20% di tutta la produzione di cobalto del paese.

Ma per le imprese che acquistano cobalto dalla RDC, l’esistenza dei minatori artigianali crea un gran mal di testa: è praticamente impossibile assicurare ai consumatori di iPad, smartphone o veicoli elettrici che nessun bambino abbia scavato, frantumato, lavato o trasportato il cobalto che si trova all’interno dei propri dispositivi. Per alcune aziende, è sembrato più semplice, infatti, porre fine a tutti gli affari con i minatori artigianali – una decisione che, secondo le ong e i funzionari congolesi, starebbe devastastando milioni di persone che dipendono dal lavoro.

DAL 2016, c’è stata un’impennata della preoccupazione delle aziende, quando Amnesty International ha emesso un rapporto molto approfondito che stila un elenco di più di due dozzine di aziende elettroniche e automobilistiche che, secondo Amnesty, non sarebbero sufficientemente diligenti nel garantire che le loro catene di approvvigionamento non includano cobalto estratto con il lavoro minorile nelle miniere artigianali. Il rapporto ha scatenato una vera e propria tempesta che ha spinto alcune imprese a cercare di trovare un modo per evitare del tutto la RDC. Mentre il dibattito sul cobalto del Congo infuria, la questione è se il Paese sia in grado di rivedere le sue pratiche di estrazione prima che le imprese globali vadano altrove. In un Paese in cui la disfunzione e la corruzione sono durate per decenni, la prospettiva di un cambiamento rapido e di ampia portata sembra difficile da immaginare. Tuttavia, i funzionari congolesi non sono gli unici colpevoli. Amnesty ha puntato il dito sui giganti occidentali della tecnologia accusandoli di star bellamente ignorando i problemi relativi al lavoro minorile e alla corruzione, in gran parte perché i consumatori si erano affrettati ad acquistare dispositivi tecnologici, senza fare domande sul lato oscuro dell’industria. “Milioni di persone godono dei benefici delle nuove tecnologie, ma raramente chiedono come sono fatte”, ha detto l’organizzazione all’epoca.

Ma finalmente le cose stanno cambiando. Il cambio di direzione c’è stato dopo che sono andati in onda dei report televisivi su bimbi minatori come Daniel e Lukasa, che scavavano in cerca di cobalto in condizioni difficili. “Abbiamo raggiunto un punto di svolta in cui è diventato più costoso non attenersi agli standard di qualità”, afferma Tyler Gillard, consulente legale presso l’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo (Ocse) a Parigi, che ha collaborato alla stesura della bozza delle linee guida due-diligence per le aziende sulle catene di approvvigionamento di minerali. “Le aziende considerano questa una delle principali minacce al valore del marchio – afferma – I consumatori chiederanno veicoli elettrici realizzati senza la manodopera minorile e senza corruzione? Secondo me ci siamo quasi”.

La prospettiva che una cattiva pubblicità sul lavoro minorile potesse provocare una crescente rabbia dei consumatori nei confronti dell’industria del cobalto congolese potrebbe spiegare perché, nel raccontare questa storia, abbiamo fronteggiato il sospetto e l’ostilità dei funzionari della RDC.

Nonostante avessimo ottenuto in anticipo l’accreditamento media dal governo centrale nella capitale, Kinshasa, una volta che il fotografo e filmmaker Sebastian Meyer e io siamo arrivati a Kolwezi, abbiamo dovuto chiedere al governatore della provincia di Lualaba, Richard Muyej, un ulteriore permesso per condurre le interviste ed evitare di venire arrestati o buttati fuori dal Paese. Seduti nell’ufficio di Muyej, abbiamo elencato i siti che volevamo visitare. In risposta, il governatore ci ha detto più volte, in francese, “On a rien à cacher”, non abbiamo nulla da nascondere.

Ma la nostra esperienza di una settimana a Kolwezi ha rivelato una realtà molto diversa. Il Ministero delle Miniere provinciale e la polizia non ci hanno concesso di entrare in nessuno dei siti per i quali avevamo fatto richiesta tranne uno, dicendoci che non eravamo autorizzati a fare alcun report indipendente senza il loro permesso. Alcune delle nostre interviste sono state condotte sotto sorveglianza della polizia. Nell’unica miniera di cobalto in cui ci è stato ufficialmente concesso di entrare – Kasulo, di proprietà del governo – i funzionari minerari provinciali ci hanno fatto visitare il sito scortati della polizia armata, mettendoci fretta e dicendoci che la presenza della sicurezza era per proteggerci dalle molestie dei minatori. Hanno rifiutato la nostra richiesta di tornare a Kasulo una seconda volta, nonostante avessimo un appuntamento con Pact, l’Ong di Washington D.C. con base a Kasulo, che è approvata dal governo e lavora per porre fine al lavoro minorile nelle miniere.

L’ultima mattina del nostro soggiorno nel paese ho chiesto al Governatore Muyej perché la sua polizia e i funzionari locali ci avessero bloccati a più riprese. “Le persone arrivano con pregiudizi”, ha detto, citando i giornalisti che hanno recentemente scritto dei bambini minatori di cobalto di Kolwezi. “Vedono tutti i cattivi, non i buoni”.

DALLO SCHIACCIANTE REPORT DI AMNESTY nel 2016, il governo si è cimentato diverse volte nel tentativo di ‘ripulire’ l’immagine della produzione di cobalto, un compito arduo al limite dello scoraggiante, oltre che paradossale, dato che i funzionari più importanti hanno tratto profitti per anni dalle operazioni minerarie poco trasparenti.

Le autorità minerarie di Lualaba presentano Kasulo come esempio virtuoso di questo tentativo. Il vasto sito di 420 acri si trova a nord di Kolwezi ed è stato aperto nel 2012, quando i locali che vivevano in zona sono incappati in alcune riserve che contenevano cobalto con una concentrazione minerale straordinariamente elevata, il 14%; migliaia di persone si riversarono nell’area, dando vita ad una vera e propria caccia al cobalto aperta a tutti.

In risposta alle proteste per i diritti umani sollevatesi, lo scorso anno le autorità provinciali hanno recintato Kasulo, creando un unico punto di ingresso e di uscita da e per il sito, controllato da guardie armate. Ora, accanto all’entrata sono affissi cartelli dipinti a mano, in francese e in swahili, che vietano l’ingresso ai minori di 18 anni e alle donne incinte, così come a chiunque sia in possesso di alcolici.

Circa 14.000 scavatori si recano a Kasulo ogni giorno alla ricerca di cobalto, organizzandosi in piccoli gruppi, dividendo poi i profitti della giornata all’ora del tramonto. Dalla miniera viene prelevato circa un quarto del cobalto delle miniere artigianali della Repubblica Democratica del Congo, mentre i diritti esclusivi per il minerale sono detenuti dalla Cina Dongfang International Mining, o Cdm, una sussidiaria interamente posseduta da Huayou Cobalt che, nel Report di Amnesty del 2016, è stata ampiamente attaccata proprio perché acquistava cobalto artigianale senza interessarsi delle condizioni dei lavoratori.

Da allora, Huayou sostiene di aver implementato programmi per i minatori di Kasulo, gestiti da Pact, per insegnare la sicurezza e spiegare perché i bambini non dovrebbero lavorare nelle miniere. Non è chiaro in che modo venga verificata l’età e/o lo stato di gravidanza di chi accede al sito. “Vedi qualche bambino? No, nessuno”, dice Erick Tshisola Kahilu, direttore generale del Ministero delle Miniere della provincia, in piedi tra centinaia di minatori che scavano nel terreno, mentre ci guida intorno al sito. “E nemmeno neonati”.

Tre mesi prima che atterrassi a Kolwezi, avevo partecipato ad una conferenza sulle catene di approvvigionamento minerario a Parigi, ospitata dall’Ocse, durante la quale i funzionari delle miniere della RDC parlavano dei loro sforzi a Kasulo. I funzionari congolesi avevano distribuito una scintillante brochure di 10 pagine, nella quale Kasulo veniva presentata come una ‘merveille emergente’, o meraviglia emergente. Ma la meraviglia dietro le porte di Kasulo più da vicino ricorda una frenetica scena della corsa all’oro californiana degli anni ‘50, piuttosto che un’impresa mineraria attuale. Diverse centinaia di uomini si muovono tra buche profonde e siti all’aperto, senza tute, elmetti o qualsiasi altro equipaggiamento protettivo, usando attrezzi manuali semplici: tondini per incidere la superficie e corde per sollevare le rocce.

Verso le 4 del pomeriggio, gli uomini caricano i sacchi di cobalto su biciclette o motociclette sgangherate e scendono giù dalla montagna verso i commercianti di Cdm, che sono pronti a quantificare la produzione giornaliera in un hangar a cielo aperto all’interno delle porte di Kasulo. Gli acquirenti controllano la concentrazione di cobalto nelle rocce, che determina il prezzo che pagheranno, usando un piccolo strumento digitale chiamato Metorex. I prezzi sono indicati su delle apposite liste scritte a mano attaccate alle pareti dell’hangar.

All’interno di aree recintate, i commercianti cinesi passano mazzette di franchi congolesi ai minatori stanchi. Nonostante le misurazioni con strumenti digitali, diversi minatori ci hanno detto che sospettano che gli acquirenti abbassino di routine i valori di concentrazione del cobalto per ridurne la retribuzione. Non ci sono prove che i loro sospetti siano fondati. Ma l’atmosfera di ‘libero scambio’ sembra pronta per un conflitto. Mentre terminava la giornata di scavo a Kasulo, ho assistito a una feroce discussione tra sei minatori su come dividere i proventi della giornata, davanti a un sentiero solcato di buche. L’ammontare al centro della discussione? 60.000 franchi, ovvero 37 dollari.

Per migliaia di scavatori che lavorano al di fuori della struttura di Kasulo, il principale centro di smercio del cobalto è Musompo, un insieme di una cinquantina di depositi all’aperto che si estende per circa mezzo miglio lungo la strada principale fuori da Kolwezi. Musompo sembra uno di quei mercati da villaggio dove vengono venduti cibo o articoli per la casa. Ma in realtà questo è un gateway chiave per l’esportazione di molte tonnellate di cobalto.

Gli intermediari cinesi, che parlano lo swahili rudimentale, misurano la concentrazione di cobalto che arriva dagli scavatori, e per circa otto ore al giorno conducono vivaci compra-vendite del metallo. “Sono arrivato di recente dalla Nigeria”, dice Xu Bin Liu, 30 anni, della provincia di Hebei, in Cina, che gestisce il deposito Boss Liu ai margini del mercato di Musompo. Seduto su un piccolo tavolo di legno fatto a mano e coperto da una tela ruvida, Xu dice che il suo lavoro comporta una dura contrattazione dei prezzi.

Ufficialmente, il Cdm di Huayou non compra più cobalto dal mercato di Musompo. Ma quando abbiamo chiesto a un compratore cinese di Musompo un’intervista, ha detto che aveva bisogno dell’approvazione del suo “capo”, un funzionario del Cdm a Kolwezi.

Le aziende del tech come Apple, Samsung e altri affermano che è estremamente difficile dimostrare che non vi sia lavoro minorile nelle miniere di cobalto di Musompo, e che i produttori di batterie che li riforniscono – che si trovano per la maggior parte nella Corea del Sud e in Cina – si riforniscono del metallo proveniente dalle miniere dove il lavoro minorile è vietato.

La situazione ha spinto le aziende a fare delle scelte difficili: ad esempio tagliare tutti i minatori artigianali dalla catena di approvvigionamento, o fermare gli acquisti di cobalto proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo. In entrambe i casi, questi cambiamenti costituiscono un potenziale disastro economico per il paese. “Questo può mettere i bambini e le famiglie in una posizione più vulnerabile – afferma Ben Katz del Patto delle Ong – Così non si riducono i danni, ma se ne causano di più”.

Tra le aziende, è in corso una gara per ridurre il cobalto nelle batterie dei veicoli elettrici, dall’attuale 10% circa al 5%, o meno. Con la tecnologia attuale, il cobalto è essenziale per produrre batterie ad alte performance. Ma il Ceo di Tesla, Elon Musk, ha dichiarato che intende produrre batterie non al cobalto per la prossima generazione di veicoli Tesla. Allo stesso modo, Volkswagen ha stretto una partnership con QuantumScape, una startup di San Jose, per inventare una batteria allo stato solido senza cobalto, in sostituzione alla versione agli ioni di litio, ma non si aspettano risultati in tempi rapidi.

“Siamo in una fase di ricerca molto precoce – afferma Axel Heinrich, direttore della ricerca di VW – Non sono in grado di sapere adesso in quale anno avremo batterie senza cobalto”. Preoccupata dall’eventualità che i bambini possano estrarre il cobalto che si trova negli iPad e iPhone, Apple afferma di aver identificato tutte le fonderie che forniscono cobalto nella sua catena di approvvigionamento e sostiene che siano regolarmente controllate da terze parti indipendenti.

Lo scorso anno, la società ha annunciato che avrebbe smesso di procurarsi tutto il cobalto dalle miniere non ufficiali della RDC, ma che non era d’accordo con chi spinge a ritirarsi dal Congo del tutto e nello stesso momento. “Ci sono delle reali sfide sull’estrazione artigianale del cobalto nella Repubblica Democratica del Congo – scrive Apple in una e-mail a Fortune – Ma crediamo profondamente che allontanarsi non contribuirebbe a migliorare le condizioni di vita delle persone o l’ambiente”.

Nel tentativo di ridurre la loro dipendenza dalla RDC, alcune aziende stanno invece investendo per sviluppare nuove riserve di cobalto; e sono in corso ricerche esplorative in Australia, Papua Nuova Guinea, Canada, e Montana e Idaho negli Stati Uniti, in parte anche perché si teme che la Cina stia bloccando la maggior parte delle riserve di cobalto al mondo; a marzo, Glencore ha accettato di dedicare un terzo della sua intera produzione di cobalto nei prossimi tre anni a GEM, la società di riciclaggio delle batterie con sede a Shenzhen. La Cina produce l’80% del solfato di cobalto mondiale – il composto utilizzato nelle batterie agli ioni di litio. E entro il 2020, la Cina probabilmente produrrà il 56% di quelle batterie, secondo la Benchmark Mineral Intelligence di Londra.

Finché la domanda di cobalto continuerà a crescere sarà difficile abbandonare la RDC completamente. La produzione di massa di batterie prive di cobalto è una realtà lontana, e potrebbero volerci anni prima di riuscire a sfruttare le nuove miniere al di fuori del Congo. “La RDC è assolutamente cruciale per la produzione di batterie agli ioni di litio – afferma Caspar Rawles, analista di Benchmark sulla tecnologia delle batterie – Senza la RDC, non avremo abbastanza cobalto, non ci sono dubbi al riguardo”.

A NORD DI KOLWEZI C’E’ UN MINUSCOLO VILLAGGIO conosciuto come UCK (pronunciato “oo-say-kah” per l’acronimo francese che si riferisce alla sua miniera originaria di rame). Lì, tra i sentieri sterrati dove i bambini calciano palloni da calcio malconci, c’è un segno di come la Silicon Valley stia cercando di combattere il lavoro minorile senza alienare i consumatori.

Nel cortile di una piccola casa che si trova lungo una strada laterale del villaggio, una mattina di luglio, tre adolescenti erano chini su un furgone, mentre imparavano come ripararlo. Partecipavano a un programma finanziato da Apple e iniziato alla fine dello scorso anno, gestito da Pact, su approvazione delle autorità congolesi. L’idea è quella di portare i bambini dalle miniere all’acquisizione di nuove competenze con le quali trarre profitti. Oggi, nei villaggi intorno a Kolwezi, circa 100 adolescenti stanno imparando a cucire, a riparare i telefoni cellulari, a tagliare i capelli, la falegnameria, il catering e altre attività.

Tuttavia, non tutte le famiglie apprezzano gli sforzi di Apple. Alcuni temono che perderanno le entrate di cui hanno disperatamente bisogno per sopravvivere. “I miei genitori mi chiesero perché avrei abbandonato la miniera”, afferma Thomas Muyamba, un sedicenne dalla voce pacata che aiuta a riparare il veicolo nel villaggio di UCK. Dice che ha iniziato a estrarre cobalto all’età di 12 anni e guadagnava tra i 3,50 e i 9 dollari al giorno, un supporto cruciale per la sua famiglia. Frequentare la scuola non è un’opzione, dice, dal momento che la sua famiglia non può permettersi le tasse scolastiche. Così ha convinto sua madre che il fatto di diventare un meccanico, alla fine, sarebbe stato meglio per tutta la famiglia. “Dico loro che garantirà il mio futuro”, racconta.

La famiglia ha la stessa speranza per la sorella di Thomas, Rachel, di 15 anni, i cui codini cespugliosi incorniciano come antenne le sue guance rotonde. Rachel è una delle circa 10 ragazze che, prima di unirsi al progetto finanziato dalla Apple alcuni mesi fa, lavava il cobalto ai margini del fiume a Kolwezi, lavoro a pagamento che le Ong ritengono sia particolarmente tossico per i giovani polmoni. Ora, come parte del programma di training, le ragazze sono sedute alle macchine da cucire Singer in un capanno a circa cinque miglia da Kolwezi, prendono gli ordini dei clienti per i vestiti e lavorano su commissione.

Ma il programma Apple non è l’unico che cerca di sradicare gli abusi sul lavoro nel settore del cobalto. L’anno scorso, la Camera di commercio cinese di importatori ed esportatori di metalli, minerali e sostanze chimiche ha lanciato la Responsible Cobalt Initiative, riunendo aziende che accettano di seguire le regole di due diligence dell’Ocse, cercando di eliminare il lavoro minorile dalle loro catene di approvvigionamento. Il gruppo include Apple, Samsung SDI, HP e Sony. In un’iniziativa separata, Huayou e altri raffinatori, minatori e produttori di automobili, si sono uniti al progetto Better Cobalt, lanciato a marzo da RCS Global, un’organizzazione con sede a Londra che tiene traccia e verifica le catene di approvvigionamento delle risorse naturali. Il gruppo afferma che sarà in grado di identificare il cobalto che soddisfa “i più alti standard globali”, concentrandosi sul lavoro minorile e sugli abusi dei diritti umani. E il grande commerciante di materie prime Trafigura ha iniziato a registrare circa 12.000 minatori artigianali di cobalto presso la grande miniera di Chemaf a Kolwezi, implementando gli standard di salute e sicurezza e organizzandoli in cooperative. Trafigura sostiene che ora i minatori stiano guadagnando molto più denaro.

Oltre alla minaccia di un contraccolpo da parte dei consumatori, le aziende sono sempre più preoccupate delle potenziali cause legali, magari da parte di qualche investitore, in caso di violazione dei diritti umani. A luglio, il London Metal Exchange ha affermato che, a partire da gennaio, tutte le aziende che ricavano più un quarto del totale dell’approvvigionamento dal metallo dalle miniere artigianali del Congo, saranno sottoposte a una verifica indipendente. Coloro che non rispettano gli standard sui diritti umani rischiano di essere banditi dal commercio sull’LME.

E ad aprile, è stato aperto un gruppo informale di WhatsApp tra i maggiori investitori, per condividere informazioni con gli abitanti locali sugli abusi nell’industria del cobalto della RDC. “Qualora vi fossero violazioni e cause legali a livello locale, le rivendicazioni potrebbero essere riportate su un piano internazionale, a una società quotata alla Borsa di Londra”, afferma Christine Chow, direttore di Hermes Investment Management a Londra. “Non voglio usare un telefono che è stato messo insieme da un bambino di 4 anni”.

NONOSTANTE TUTTI GLI SFORZI delle aziende e degli investitori, finché persisterà la povertà per milioni di congolesi, i progetti presenteranno comunque dei forti limiti.

Questo è chiaro quando si viaggia a pochi chilometri di distanza dai siti di scavo di Kolwezi. Il giorno dopo aver incontrato gli adolescenti Thomas e Rachel Muyamba, li incontriamo di nuovo, per caso, nel loro villaggio natale. (Ancora una volta, Fortune non nominerà la comunità perché teme che le autorità possano etichettare quei bambini per aver parlato con giornalisti senza permesso).

Seduti fuori dalla minuscola dimora di mattoni di fango dove vivono Thomas e Rachel con la loro famiglia, è chiaro che la decisione della madre e della nonna di consentire loro di unirsi ai programmi di Apple e smettere di estrarre il cobalto è stata difficile. Gli adolescenti guadagnano ancora solo una piccola parte di ciò che guadagnavvano nelle miniere, facendo pagare lo scotto alle loro famiglie.

Una folla si riunisce intorno a noi mentre parliamo e chiedo quali bambini stiano ancora scavando per il cobalto. Diverse mani si alzano tra la folla, tra queste anche quella del quindicenne Lukasa, il ragazzo la cui giornata di 12 ore inizia alle 5 del mattino in questo villaggio. Per questi bambini minatori, il compito quotidiano di scavare per il cobalto sembra ancora degno del lavoro massacrante, nonostante il crescente numero di programmi sostenuti dalle imprese che li spingono a smettere. I 9 dollari che guadagna Lukasa nei giorni buoni, sono molto di più di quelli che guadagna Thomas con il suo lavoro finanziato da Apple come meccanico automobilista, e corrispondono a ciò che Rachel raccimola in un’intera settimana di cucito. Rachel dice che si aspetta delle solide entrate come sarta, nel giro di pochi anni. “Avrò il mio negozio”, afferma.

Se Rachel riuscirà a portare avanti il suo progetto, si tratterà di uno dei rari casi in cui i minatori del Congo crescono con una qualità di vita che supera la soglia della sopravvivenza. Le aziende tecnologiche e automobilistiche sperano che anche migliaia di altri bambini trovino la loro strada fuori dalle miniere, consentendo all’industria della tecnologia di scongiurare la rabbia dei consumatori, continuando a sfruttare l’enorme ricchezza del Congo per fornirci le batterie di cui abbiamo bisogno.

 

Articolo di Vivienne Walt apparso sul numero di Fortune Italia di ottobre 2018.

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