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Covid-19, mancano numeri certi

In Italia stiamo vivendo settimane difficilissime aggravate, a quanto pare, da numeri ‘eccezionalmente avversi’. La pandemia ha trovato anche la nostra economia indebolita, senza difese immunitarie, stremata da decenni di crisi. La gente è disorientata e a questi numeri si aggrappa come solide certezze. Le nostre giornate sono scandite dai bollettini degli assessorati regionali prima e della Protezione Civile subito dopo: nuovi contagi, pazienti ospedalizzati, ricoveri in terapia intensiva, decessi, guarigioni. Le pagine web di tutti i principali quotidiani sono piene di percentuali, di grafici (anche interattivi) cui la gente rivolge lo sguardo nella speranza di veder calare la curva allo stesso modo con cui si guarda alla fine di un tunnel alla ricerca della luce, della libertà. L’ansia si sta trasformando in sfiducia, stato d’animo dalle ripercussioni economiche ben note.

Ma è vero che i numeri non mentono? Per fare chiarezza su questa delicata e fondamentale questione, Fortune Italia ha chiesto il parere a un esperto, il prof. Gian Luca Di Tanna, Head of Statistics Division, The George Institute for Global Health e Associate Professor, Faculty of Medicine, University of New South Wales, Sydney, Australia, che ha dedicato la sua vita professionale allo studio dei numeri in ambito medico-scientifico.

Innanzitutto, professore, qual è la situazione in Australia? In Italia avevamo avuto notizia di un primo contagio da voi a fine gennaio poi più nulla.

È vero, l’Australia ha avuto dei primi casi di Covid-19 a cavallo del Capodanno cinese di fine gennaio che furono immediatamente isolati controllandone la diffusione. A oggi (29/3), l’Australia è ancora indietro come numero di casi identificati rispetto al Sud Est Asiatico, Europa e Stati Uniti: siamo intorno ai 4.000 casi identificati e 16 decessi. La risposta del Governo australiano per affrontare la pandemia è stata quella definita proporzionale scalabile, ovvero stiamo arrivando gradualmente a un full lockdown (chiusura completa). Una scelta comunque rischiosa in quanto sappiamo che davanti a crisi geometriche (con casi in crescita esponenziale) una decisione presa oggi è tre-quattro volte più efficace di un’analoga decisione presa però la settimana successiva. Con economia e salute sui piatti di un’ipotetica bilancia forse si è fatto prevalere il primo aspetto, con conseguenze che potrebbero risultare gravissime sul secondo tra poche settimane. A peggiorare il tutto abbiamo avuto anche il caso di una nave da crociera, la Ruby Princess, che pur avendo segnalato oltre 150 casi di malattia al rientro verso Sydney, è stata fatta attraccare il 19/3 lasciando liberi di circolare in centro città gli oltre 2700 passeggeri: a oggi tra questi mi risultano oltre 280 casi positivi al Covid-19. Superficialità imbarazzanti e contraddizioni come quella di imporre uno spazio fisico tra persone di 4mq pur tenendo le scuole aperte (sostanzialmente gli insegnanti sono trattati come baby-sitter da immolare).

Parliamo di numeri, di statistiche. Il dato che più allarma gli italiani è quello dell’altissimo numero di decessi in relazione al numero di positivi identificati dal Ssn. Ha senso parlare di tasso di fatalità se non si conosce il reale numero dei contagiati?

Partiamo dal presupposto che non dovremmo mai affidarci ai numeri assoluti che possono facilmente indurci a false percezioni del rischio. Siamo spesso vittime della ratio bias (distorsione da rapporti) ovvero ci dimentichiamo facilmente del denominatore. Se, a esempio, vi chiedessi quale situazione sia più grave: 36.500 decessi annuali di cancro o 100 morti al giorno? Probabilmente molti cadrebbero nell’errore di farsi spaventare dal primo numero a più cifre quando in realtà il rischio è lo stesso. Il tasso di fatalità ha al numeratore un conteggio purtroppo facile da fare, il numero di decessi per quella specifica condizione. Ma il denominatore – ovvero il numero reale di infetti – richiede studi specifici perché facilmente i casi di infezione con sintomi più lievi possono passare inosservati al conteggio risultando in una sottostima di questo numero e,quindi, sovrastima del tasso di fatalità reale. Una prima indicazione venne data studiando i dati dei primi 55.000 casi identificati in Cina con l’Organizzazione Mondiale della Sanità che, partendo dal tasso di fatalità riscontrato dalle autorità cinesi (pari al 3.4%), aggiustò la stima portandola all’1%. Mortalità comunque 10 volte più alta dell’influenza stagionalee, nonostante questo, qualcuno ancora paragonava Covid-19 a una banale influenza.Il tasso di fatalità di Covid-19 rimane comunque più basso di quello di altre epidemie che ci hanno solo sfiorato quali SARS (Severe acute respiratory syndrome)-Cov2002 (~9.5%) e MERS (Middle East respiratory syndrome)-Cov2012 (~34%).

È possibile affermare con certezza che le cose vanno peggio in Italia rispetto ad altri Paesi? Esiste un caso Italia come i numeri a nostra disposizione sembrerebbero dimostrare?

Non credo. Sebbene l’Italia sia la nazione che finora ha pagato il dazio più alto in termini di vittime, la vedo più come un precursore piuttosto che un outlierrispetto agli altri Paesi. È vero che è difficile fare confronti sia come numero di casi (che chiaramente dipendono dal numero e modalità di esecuzione di test fatti) che come numero di decessi attribuibili a Covid-19 (come in Germania dove hanno finora largamente attribuito le morti di infetti con pre-esistenti condizioni come dovute a queste e non al virus), inoltre ho visto poche standardizzazioni fatte per tener conto di strutture demografiche diverse. È innegabile comunque che al di di un gruppo di paesi come Giappone, Sud Corea, Singapore, Hong Kong, che sono riusciti a rallentare la crescita esponenziale dei contagi tramite interventi drastici o con un’efficace mappatura degli infetti, il resto del Mondo, purtroppo, ci sta rincorrendo: cosa abbastanza deludente in quanto – a mio avviso – è il segnale che molti Governi (con primi contagi avvenuti dopo giorni/settimane) non hanno saputo imparare dalle esperienze altrui. Tornando alla nostra situazione, credo che in Italia ci siamo ritrovati ad affrontare una serie di casi simultanei (diversi dei quali ‘importati dalla Cina) che hanno fatto da detonatore alla crescita esponenziale ancora prima che ci si rendesse conto della gravità della situazione, quando era ormai fuori controllo.

È realmente possibile prevedere un ‘picco’ dell’epidemia? Tutti parlano di ‘flatten the curve’ ma cosa significa realmente?

Grazie all’aiuto di modelli di simulazione che tengono conto di fattori quali l’indice di riproducibilità (quante persone può infettare un malato), il tasso di fatalità e quello di guarigione e in base alle condizioni al contorno imposte dalle Autorità quali il distanziamento sociale, la chiusura dei locali e la limitazione agli eventi pubblici etc. si è in grado di prevedere l’andamento temporale del numero di infetti. A partire da questo, ipotizzando una determinata percentuale di malati gravi che richiedono ospedalizzazione ed eventuale ricorso a terapie intensive, sappiamo quale sarà l’impatto sulle strutture sanitarie. Che è il dato che più ci interessa. Abbassare la curva ci permette di evitare di mandare in crisi il sistema ospedaliero che può essere sopraffatto da picchi di entrate (ricordo inoltre anche che le altre malattie/richieste di assistenza non si fermano per via del Covid-19). Ecco quindi che intervenire in modo tempestivo e a volte drastico per rallentare la curva può essere determinante per evitare poi di dover fare scelte in terapia intensiva difficili anche dal punto di vista etico quando, davanti all’impossibilità di aiutare tutti, si impone una selezione dei casi da trattare in base a determinate caratteristiche clinico/prognostiche del paziente. La disponibilità di dati certi è fondamentale per vincere questa battaglia e per pianificare il futuro. La guerra si vince non solo negli ospedali e nei laboratori di ricerca ma anche fornendo a medici, scienziati e politici accurate analisi epidemiologiche e statistiche.

I dati messi a disposizione dalle autorità cinesi (ammesso che fossero veritieri) erano sufficienti per prevedere tutto questo?

Dati utili ma che andavano contestualizzati. La Cina ha delle peculiarità sia dal punto di vista macro (governo autoritario) che micro-comportamentale, ma è innegabile come ci abbia offerto spunti incredibilmente utili dal punto di vista di gestione clinica del paziente e sul valore del lockdown. Al di dei numeri effettivi la Cina ci ha insegnato (con quasi due mesi di anticipo) l’importanza di due strategie fondamentali per arginare l’epidemia: effettuare test per identificare prontamente i contagiosi e isolamento per prevenire la diffusione della malattia. Sapevamo quindi da gennaio che avremmo dovuto accelerare sul fronte della ricerca di un vaccino, di cure affidabili e, quantomeno, prepararci con test, letti e ventilatori nelle terapie intensive ed equipaggiamento protettivo per gli operatori sanitari. Leggerezza a livello mondiale e, purtroppo, anche Italiana: mentre il cittadino medio forse era troppo occupato nel seguire Ronaldo e il litigio tra Morgan e Bugo a Sanremo la classe politica avrebbe dovuto intervenire senza indugi preparandosi a quello che era un destino già segnato.

Perché reazioni così differenti dei vari Governi, hanno a disposizione dati differenti o solo differenti visioni politiche?

Diversi Governi si affidano a uno o più panel di esperti (di solito accademici) che vengono consultati offrendo i risultati dei loro modelli (che sarebbe bene rendere pubblici) e le loro interpretazioni e suggerimenti. Ma è il Primo ministro e il suo Gabinetto che poi decidono se e come/quanto seguire le raccomandazioni ricevute. I modelli, a seconda dei dati utilizzati, possono dare risultati diversi con – fattore molto importante – relativa incertezza (chiamiamola probabilità di accadimento) degli scenari che vengono delineati. Ogni Governo, chiaramente, ha una sua percezione della doppia crisi che stiamo affrontando: infatti parliamo una crisi sul fronte della salute pubblica che sta anche creando una crisi nell’economia. A proposito di questo trade-off tra economia e salute mi e’ piaciuto molto l’interventismo del PM della Nuova Zelanda, Jacinda Ardern, che alla diagnosi del centesimo caso nel suo Paese ha deciso di rompere ogni indugio ed evitare mezze misure imponendo uno full shutdown per 4 settimane. Come ho detto prima sono dell’idea che sia meglio una decisione drastica immediata piuttosto che un tentennare che può portare a dover poi rimarginare ferite grandi con danni economici forse ancora più profondi.

Senza dati certi siamo realmente in grado di valutare gli effetti degli interventi già attuati per contrastare la diffusione dell’epidemia?

Certamente, ma bisogna avere la tenacia di seguire una linea di condotta – meglio se apertamente dichiarata indicandola chiaramente ai cittadini con modalità e tempi di esecuzione – e tenere conto del tempo di latenza. Covid-19 è un virus altamente contagioso e con tempi di incubazione che vanno da 1-2 fino a ben oltre 14 giorni (oltre 20). Gli interventi che non vengono attuati oggi hanno conseguenze potenzialmente devastanti riscontrabili solo due settimane dopo (considerando persone asintomatiche ma infette che possono contagiare 2/3 persone ciascuna).

A chi il compito di raccogliere questi dati? A chi quello di interpretarli?

I dati collezionati in modo routinario (ospedalizzazioni, transiti nelle terapie intensive, durata dei ricoveri, etc.) sono chiaramente una prima fonte di informazione preziosa per il monitoraggio dell’andamento dell’epidemia e per informare i modelli accennati sopra. Ma, come detto, la vera sfida è quella di avere una stima più affidabile del numero di infetti (e la loro geolocalizzazione per identificare potenziali “hotspots” focolai di trasmissione). Infatti, sia se ci affidiamo al numero di positivi al tampone fatto su sintomatici ma anche su test fatti a tappeto su persone in fila al supermercato (chi non si sente bene più difficilmente va a fare la spesa) stiamo chiaramente sottostimando il numero reale di infetti. Ecco quindi che idealmente dovremmo (avremmo dovuto…) realizzare un protocollo di studio di una coorte costituita da un campione rappresentativo di popolazione da seguire in modo puntuale per un periodo di tempo di qualche settimana/mese. Disegnare studi del genere, analizzarli e interpretare i risultati è compito di team multiprofessionali dove lo statistico medico chiaramente gioca un ruolo decisivo. Se mi permettete, Covid-19 ha dato il via anche a un’altra epidemia: quella di persone che senza le conoscenze statistiche adeguate ma munite di laptop e software di analisi ormai disponibili ovunque si sono messi a divulgare dati e analisi spesso fuorvianti. Si parla sempre più insistentemente della necessità di dati puntuali, disaggregati geograficamente e per caratteristiche demografiche. Una App per tracciare gli spostamenti. Il Governo apre alla ‘via coreana’ e cerca esperti e soluzioni.

A prescindere dagli evidenti risvolti sulla tutela della privacy e sul concetto stesso di democrazia, è questa l’unica soluzione?

Come ho avuto modo di dire in precedenza davanti a una pandemia del genere è fondamentale essere in grado di identificare prontamente, localizzare e tracciare nel tempo tutti i casi di infezione. Una mappatura completa di questo tipo inevitabilmente pone dei problemi di privacy (pensiamo, a esempio, a Singapore dove sono stati inviati almeno due volte al giorno sms a persone che erano in quarantena geolocalizzando la cella di provenienza della conseguente risposta) ma in situazioni di emergenza sanitaria globale come questa che stiamo vivendo credo sia inevitabile affermare che il bene comune debba prevalere sulla libertà individuale. Chiaramente tale livello di controllo eccezionale dovrebbe essere circoscritto solamente all’arco temporale necessario a fronteggiare l’emergenza pandemica.

Ci sono altri metodi efficaci per raccogliere i dati necessari, in tempi rapidi e con costi sostenibili?

Si sta lavorando in vari laboratori mondiali alla creazione di un vaccino, che sarà disponibile non prima di 8/14 mesi. Ci sono sperimentazioni in atto su svariati trattamenti farmacologici, con antivirali malarici e HIV che hanno cominciato a dare qualche risultato promettente. Ma bisogna fare attenzione a interpretare gli studi e i loro risultati in modo corretto. Idealmente solo uno trial clinico randomizzato (due o più trattamenti vengono assegnati in modo casuale a due gruppi di pazienti rappresentativi della popolazione di malati che vengono seguiti nel tempo per confrontare la differenza di efficacia) e sufficientemente ampio può dare risultati attendibili tenendo anche conto di eventuali effetti avversi. Al momento abbiamo a disposizione solo primi studi su serie di pazienti con casistiche abbastanza limitate: utili per fornire prime indicazioni e pianificare trials clinici adeguati ma non di certo in grado di affermare al di di ogni ragionevole dubbio che una cura è stata trovata. Considerando la gravità della situazione attuale sono certo che a un primo segnale positivo proveniente da uno studio clinico randomizzato ben condotto verranno tolte ogni potenziali barriere all’utilizzo del farmaco e diffuso immediatamente su larga scala.

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