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La geopolitica economica al tempo di TikTok

oracle tiktok

TikTok, la popolare app per la condivisione di video che conta attualmente 1,3 miliardi di utenti mensili, di cui 500 milioni in Cina (tramite Douyin), 100 milioni negli Usa e oltre 4 milioni in Italia, si è ritrovata suo malgrado al centro della ‘sylicon curtain’ innalzata tra le due maggiori superpotenze mondiali, costretta a vendere le proprie attività a investitori americani o a chiudere i battenti su suolo americano.

 

Ad uno sguardo superficiale, TikTok non sembrerebbe avere di per sé le caratteristiche per scatenare una contesa internazionale, trattandosi di un’app che consente di caricare e guardare brevi video prevalentemente girati da adolescenti che cantano e ballano mescolando le proprie performance con audio e video pop professionali.

 

La centralità e il risalto che desta il caso sono dettati dal suo fungere da incarnazione del profondo legame che si è innescato tra cultura pop, crescente importanza socio-economica delle tech company, dinamiche geopolitiche ed evoluzione tecnologica.

 

Guardando alla capitalizzazione delle prime 10 imprese del mondo negli ultimi 25 anni, si nota come la gestione dei dati abbia assunto una valenza strategica pari – se non superiore – a quella dei comparti dell’energia, della manifattura e della Difesa.

 

Anno: 1995
Ranking Azienda Capitalizzazione (mln $)
1 Royal Dutch Shell 114
2 General Electric 107
3 Exxon Mobil 93
4 Coca-Cola 88
5 Toyota 73
6 Merck 69
7 Walmart 55
8 IBM 55
9 Microsoft 55
10 Intel 53

 

Anno: 2020
Ranking Azienda Capitalizzazione (mln $)
1 Saudi Aramco (Arabia Saudita) 1.684,80
2 Microsoft (Usa) 1.359
3 Apple (Usa) 1.285,50
4 Amazon (Usa) 1.233,40
5 Alphabet (Usa) 919,3
6 Facebook (Usa) 583,7
7 Alibaba (Cina) 545,4
8 Tencent Holdings (Cina) 509,7
9 Berkshire Hathaway (Usa) 455,4
10 Johnson & Johnson (Usa) 395,3

Oltre alle dinamiche economiche, l’impressionante crescita globale delle maggiori web companies viene guardata con sospetto quando a far incetta di dati dei propri concittadini sono imprese che fanno capo a Paesi stranieri o addirittura ‘ostili’. Se in Europa si nota una maggiore attitudine alla cooperazione, con restrizioni che al momento si focalizzano prevalentemente sul rafforzamento delle norme sulla concorrenza e soprattutto sulla protezione dei dati (al netto di una rinnovata volontà di sovranità tecnologica che sta emergendo ad esempio con il cloud), negli Usa dell’America First la presenza di imprese del Dragone viene vista con minor favore.

 

 

Ecco allora che la crescita esponenziale di un social network cinese presso la popolazione americana, peraltro focalizzato prevalentemente su un target particolarmente sensibile quale quello delle nuove generazioni (il 62% degli utenti è compreso nella fascia 10-29 anni), assume una valenza che va ben al di là della semplice concorrenza. Inoltre, non è irrilevante osservare come la piattaforma abbia le potenzialità per trasformarsi all’occorrenza in teatro politico (sebbene vietato dalle guidelines) come nel caso di una rete di teenagers che ha sabotato una tappa della campagna elettorale di Trump a Tulsa, in Oklahoma, prenotando una serie di posti sotto falsa identità e determinando il flop dell’iniziativa.

 

 

I problemi per TikTok sono iniziati a gennaio 2019, quando il Peterson Institute for International Economics ha indicato l’app come una minaccia alla sicurezza nazionale, mostrandone da un lato la popolarità presso il personale militare, e dall’altro la possibilità per la parent company cinese ByteDance – e quindi anche per il governo della Repubblica Popolare – di accedere a immagini, geolocalizzazione e dati biometrici degli utenti. In particolare, è stato posto l’accento sull’obbligo per le compagnie cinesi di condividere tali dati con il governo in caso di necessità, secondo quanto previsto dalla China Internet Security Law (sulla quale, però, esistono pareri discordanti).

 

 

ByteDance, la controllante di TikTok, ha provato a difendersi mostrando come l’app non fosse disponibile in Cina (TikTok e Douyin sono due servizi separati) e come i dati non fossero immagazzinati in server localizzati nel Paese del Dragone. Tuttavia, la privacy policy del social network, che si riserva la possibilità di condividere le informazioni con le autorità cinesi, ha contribuito ad alimentare i sospetti. Le segnalazioni di alcuni senatori repubblicani hanno portato, oltre all’apertura di indagini da parte dell’Intelligence e della Commissione sugli Investimenti Esteri (CFIUS), a un’escalation sfociata nel divieto di utilizzo dell’app sui device governativi, della marina, dell’esercito, del personale dei trasporti, e in seguito di tutti gli impiegati federali. Persino il Comitato del Partito Democratico ne ha sconsigliato l’uso per la campagna elettorale, e Biden ha chiesto al proprio staff di eliminarla dai propri device.

 

 

Allo stato attuale il caso appare piuttosto intricato. Secondo il New York Times, un esperto di sicurezza della Cia avrebbe informato la Casa Bianca di come non risultino prove che il governo cinese abbia utilizzato l’app per accedere ai dati degli utenti americani. La stessa fonte riferisce che un tale accesso appare nella pratica possibile. Tuttavia, i dati non sarebbero dissimili da quelli raccolti all’estero dalle web companies americane. “Ma non in Cina”, obiettano i più attenti, dove i maggiori servizi web americani sono bloccati ed il Governo di Pechino ha incentivato la nascita di servizi autoctoni che, da qualche tempo, hanno raggiunto un livello di maturità tale da insidiare i top performers mondiali, fino ad ora tutti a stelle e strisce.

 

 

D’altro canto, ByteDance ha diversi investitori non cinesi – tra cui KKR, SoftBank e General Atlantic – e i suoi rapporti col governo di Pechino non sono sempre stati idilliaci. Al contrario, ad aprile 2018 il gruppo è stato costretto a chiudere una delle proprie app, Neihan Duanzi, perché ospitava video e sketch ritenuti troppo volgari. I video venivano selezionati dal potente algoritmo, creato in prima persona dal fondatore di Bytedance, Mr. Zhang, e dai suoi ingegneri. Questo particolare software era già noto in patria poiché alla base di Toutiao, un aggregatore di news molto famoso in Cina che aveva come editore capo, appunto, un simile tipo di algoritmo. Dopo la vicenda dei video ritenuti volgari, Zhang si è scusato con una lettera in cui si assumeva la responsabilità dei contenuti “incompatibili con i valori socialisti” del Paese.

 

 

Sul fronte americano, Bytedance ha provato in vari modi a integrarsi, assumendo personale statunitense – dal Ceo al team di moderazione – pianificando un allargamento del personale da 1.000 a 10.000 addetti e soprattutto effettuando lo storage dei dati degli utenti Usa all’interno di server collocati in Virginia e a Singapore. Tuttavia, ciò non è bastato a convincere il governo americano: il 6 agosto Trump ha firmato un ordine esecutivo che bannava la piattaforma qualora il controllo non fosse passato di mano, ed il 14 agosto ha pubblicato un secondo ordine esecutivo dando a ByteDance 90 giorni per vendere le attività su suolo Usa.

 

 

Microsoft si è da subito dimostrata interessata, seguito poi da Walmart, Oracle e Twitter. Date dimensioni e caratteristiche, la sussidiaria statunitense di ByteDance è stata stimata tra i 15 e i 50 miliardi di dollari, e sembra che le parti fossero vicine ad un accordo a metà strada (tra i 20 e i 30 miliardi). In Cina, nel frattempo, Zhang è stato accusato di essere troppo accomodante rispetto al tentativo Usa di “rubare” TikTok, e a fine agosto ByteDance ha presentato ricorso per violazione del diritto costituzionale ad un giusto processo, poiché il ban è avvenuto senza che la compagnia avesse ricevuto alcuna notifica né le fosse concesso di essere udita. Pochi giorni dopo, il governo cinese ha inserito “i servizi e le interfacce di personalizzazione delle informazioni basati su intelligenza artificiale” nella lista degli asset che richiedono un’autorizzazione governativa per essere venduti. Quest’ultima può richiedere fino a 30 giorni prima di essere concessa. In tal modo, Pechino ha posto il veto sul cuore pulsante di TikTok, il famoso algoritmo in grado di capire i gusti dell’utente a tal punto che, per limitare il binge-watching, l’app aveva introdotto la possibilità di impostare un blocco automatico dopo 40, 60 o 120 minuti. Secondo Qustodio, a febbraio 2020 gli utenti 4-15 anni trascorrevano in media oltre 80 minuti al giorno sull’app, in crescita del 110% rispetto a maggio 2019.

 

 

Giunti alle soglie della deadline, rimane però grande confusione sulla data effettiva del ban. Trump voleva la chiusura del deal entro il 15 settembre, mentre il primo ordine operativo indicava nel 20 settembre la data limite, e il secondo richiedeva la vendita delle attività su suolo Usa entro il 12 novembre. Lo scorso 13 settembre, Microsoft ha pubblicato un comunicato in cui sottolineava la volontà di ByteDance di non cedere alla compagnia guidata da Satya Nadella le attività statunitensi.

 

 

Dalle ultime indiscrezioni riportate dal South China Morning Post, Zhang avrebbe deciso di cedere la sussidiaria Usa ad Oracle senza algoritmo e codice sorgente. L’accordo si profilerebbe più simile a una partnership tecnologica piuttosto che una vera e propria cessione, con Oracle che assumerebbe la responsabilità delle operazioni di TikTok negli Usa e i fondi General Atlantic e Sequoia Capital che assumerebbero una quota di minoranza nella compagnia. La mossa rappresenterebbe quindi un compromesso per mettere un player statunitense a garanzia delle attività nel suolo americano, senza però cedere completamente il controllo delle operazioni, né tantomeno la tecnologia. Per vedere la fine di questa vicenda, occorre da un lato verificare la reazione della Casa Bianca a questo tipo di deal e, dall’altro, capire come verrebbe superata la questione dell’algoritmo che, secondo la TV cinese CGTN, se ceduto implicherebbe il blocco dell’operazione da parte del governo di Xi Jinping.

 

 

Secondo Wong Kam-fai, professore di ingegneria alla Chinese University of Hong Kong e membro della Chinese Association for Artificial Intelligence, il motore di ricerca e suggerimenti, per quanto sofisticato, non sarebbe insostituibile. Tuttavia, un suo rimpiazzo necessiterebbe di un po’ di tempo – circa un anno – per allenarsi a comprendere i gusti degli utenti e fornire i giusti risultati personalizzati. Un tempo che, alla velocità con cui si evolvono i servizi web, potrebbe rivelarsi decisivo. Staremo a vedere. Certo è che le relazioni tra Stati Uniti e Cina appaiono in caduta libera e, con esse, la romantica visione di Internet libero che tanto affascinò negli anni ’90. Basterà un accordo, per quanto di compromesso, per iniziare a ricucire i rapporti tra le due super-potenze?

 

Lorenzo Principali è Senior Research Fellow Istituto per la Competitività, I-Com.

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