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Parità di genere, un investimento che conviene

Venticinque anni fa a Pechino capi di Stato da tutto il mondo si riunivano per discutere e approvare una Piattaforma di azione per le donne. Un momento che segnò la storia dell’evoluzione dei diritti umani e trasformò le politiche di quasi tutti i singoli Paesi e a livello internazionale, impattando miliardi di vite.

 

La Conferenza mondiale di Pechino segnò l’inizio di un percorso trasformativo, che mirava a ingaggiare i ministeri, le organizzazioni della società civile, le istituzioni a tutti i livelli e le organizzazioni internazionali, per mettere in atto strategie nazionali multisettoriali.

 

Quest’anno, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, UN Women ha lanciato una campagna globale, che andrà avanti fino al 10 dicembre, Giornata mondiale dei Diritti Umani, dal titolo “Orange the World: fund, respond, prevent, collect” al quale si sono unite milioni di istituzioni, organizzazioni della società civile e persone.

 

Tra le tante conseguenze della pandemia Covid-19, il 2020 è segnato da un acuirsi della violenza sulle donne nelle sue diverse forme: fisiche, virtuali, psicologiche, economiche. La campagna è quindi una chiamata globale ad aumentare i fondi per iniziative a livello locale, nazionale e internazionale, assicurare servizi essenziali per le donne vittime di violenza, focalizzarsi sulla prevenzione, raccogliere dati e utilizzarli in maniera strutturata per fornire supporto mirato a donne e bambine di tutto il mondo.

 

Ma un quarto di secolo dopo questa importante svolta, a che punto siamo in Italia? Quali passi, avanti e indietro, sono stati fatti?

 

Per parlarne è necessario partire dai dati e considerare diverse dimensioni. L’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE) rileva e monitora dal 2013 progressi e arretramenti dei Paesi membri e dell’Unione Europea in riferimento all’uguaglianza di genere, considerando sette aree principali: lavoro, finanza, formazione, potere, tempo, salute e violenza (anche in base a indicatori che tengono conto delle diseguaglianze intersezionali).

 

Dopo sette anni, si può notare come l’avanzamento della media europea sia molto lento e disomogeneo, con Stati che fanno molto bene in alcune aree ma male in altre. Se zoomiamo sull’Italia, vedremo che è partita da un livello molto basso nel benchmark europeo e, oggi, la sua performance in base all’indice aggregato è migliorata del 23,6%.

 

Non bisogna tuttavia lasciarsi ingannare: questo risultato è essenzialmente dovuto al salto in avanti della dimensione potere, riconducibile agli effetti dell’introduzione della legge Golfo Mosca (n.120/2011), che ha imposto le quote di genere nei Consigli di Amministrazione delle società quotate. Il provvedimento, approvato nel 2011, è sicuramente innovativo e all’avanguardia: si pensi che in Germania oggi si sta portando avanti una proposta simile (33% di donne nei board delle società quotate) dopo che si sono resi conto, grazie a studi e ricerche, che il sistema di inclusione su base volontaria non è stato efficace (fonte: The Guardian).

 

Dall’analisi di impatto dei primi dieci anni di applicazione della legge (fonte: Le donne ai vertici delle imprese, Cerved e Fondazione Bellisario in collaborazione con Inps) vanno rilevati gli ottimi risultati raggiunti per le società quotate, ma anche messo in luce che, purtroppo, questa non ha avuto significativi “effetti di trascinamento”, che coinvolgano le società non quotate o riguardi il numero di donne Amministratrici delegate (solo l’8.4%), ed “effetti cascata” sul numero di donne manager in ruoli apicali e sulla differenza di salari tra donne e uomini (si veda in questo senso il rapporto del World Economic Forum Mind the 100 Year Gap).

 

Altri dati, questa volta sulla violenza sulle donne, ci dimostrano quanto ci sia ancora da fare: il 92,5% dei casi di violenza sessuale non viene denunciato (fonte Istat). Viene da chiedersi come in un Paese considerato ad “economia e democrazia avanzata” ciò possa essere ritenuto culturalmente e socialmente accettabile.

 

Alla base di tutte queste problematiche c’è, tra le altre, una mancanza, in Italia, di un approccio sistemico al tema: disponiamo infatti di un sistema della conoscenza e delle informazioni, delle istituzioni e delle organizzazioni, che lavorano a compartimenti stagni, senza dialogare, e non siamo in grado di mettere in atto approcci di cambiamento sistemico, come ad esempio considerare le politiche di eguaglianza di genere come una questione trasversale di diritti umani più che un elemento delle politiche per la famiglia o la maternità. Emblematico in questo senso la mancanza di un’Istituzione nazionale indipendente per i diritti umani, richiesta dall’Onu (risoluzione Onu n.48/134) agli Stati membri nel 1993.

 

Sulla violenza di genere, tra i vari aspetti da considerare, vi è la forte dipendenza economica di molte donne, se si considera sia in termini di disoccupazione femminile che di segregazione di certi tipi di lavoro, problema di applicazione delle leggi, stereotipi culturali che riducono la figura della donna ad oggetto sessuale, mancanza di formazione tra le forze di polizia, colpevolizzazione e vittimizzazione secondaria, carenze nel processo di empowerment di bambine e ragazze.

 

Va, infine, sottolineata l’arroganza culturale, che ancora fa da padrona, nel considerare l’eguaglianza di genere un problema di Paesi del Terzo Mondo e non di democrazie avanzate come la nostra. Ma i dati ci raccontano un’altra storia: la questione è più che mai attuale e presente in Italia e se vogliamo vivere in una società più equa e sostenibile dobbiamo metterla al centro e affrontarne le cause.

 

Ma cosa possono fare fondazioni ed enti filantropici e la finanza in tal senso?

 

Fondazioni ed enti filantropici sono soggetti che mettono a disposizione risorse private (finanziarie ma non solo) per il bene comune. Sono caratterizzate da una forte autonomia, flessibilità e una visione di lungo periodo: elementi chiave che permettono loro di poter fare una grandissima differenza nella promozione e protezione dell’uguaglianza di genere.

 

In che modo? Non solo finanziando e supportando programmi e progetti specifici dedicati a questo obiettivo, ma anche utilizzando “gender lens” (letteralmente una lente di genere) nelle proprie attività: dalla gestione dei patrimoni alla disposizione di finanziamenti filantropici fino ai programmi che portano avanti, ma anche alla composizione del proprio board, della governance e dei ruoli di leadership al suo interno.

 

Possono dare l’esempio alle altre organizzazioni e agli stakeholder con cui interagiscono e essere leader del cambiamento di paradigma culturale. In questo contesto, l’Agenda 2030, con l’obiettivo 5 che mette al centro diritti di donne e bambine come uno degli aspetti fondamentali dello sviluppo sostenibile, è un importante “alleato” per fondazioni ed enti filantropici nel dialogo e l’ingaggio dei propri partner del settore privato.

 

Promuovere l’eguaglianza di genere a tutti i livelli non può più essere ricondotto a un politicamente corretto: grazie ai dati oggi sappiamo che questa espande la visione delle organizzazioni, le loro capacità, migliori i loro processi, la performance e l’impatto. Ad esempio, le iniziative di benchmarking portate avanti da Equileap, organizzazione indipendente specializzata nella raccolta e fornitura di dati sull’eguaglianza di genere nelle società quotate, e il World Benchmarking Alliance, che misura il contributo del settore privato nel raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, evidenziano come l’eguaglianza di genere sia un indicatore fondamentale nel successo economico dell’azienda.

 

Ricerca e produzione di dati sul tema è quello che sta facendo fare un salto di qualità alla promozione dell’uguaglianza di genere, convincendo sempre più investitori a scommettere e supportare imprese gender balanced. Questo tipo di investimenti non riguarda più solo una nicchia specifica, quella della cosiddetta finanza sociale e sostenibile, ma tutti gli operatori finanziari per cui gli investimenti ESG (Environment, Social and Governance) rappresentano una nuova frontiera che, da un paio d’anni, si sta affermando sempre di più, grazie anche alla spinta rivoluzionaria dei Millennials, giovani donne e uomini che mettono al centro delle loro scelte non solo la redditività delle imprese ma anche il loro impatto sulla società.

 

Alcuni di questi, in particolare, beneficeranno, del più grande trasferimento di ricchezza intergenerazionale mai avvenuto nella storia dell’umanità: in America si prevede che nei prossimi 30 anni i Millennials erediteranno dai Baby Boomers 60 trilioni di dollari (fenomeno definito The Great Wealth Transfer); entro il 2030 saranno cinque volte più ricchi di adesso.

 

A molti High Net Worth Individual (HNWI) di questa generazione interessa l’impatto ambientale e sociale dei loro investimenti, si impegnano e impiegano le proprie risorse finanziarie per avere un ritorno ambientale e sociale, oltre che finanziario. Lo fanno perché vogliono promuovere una società più equa e sostenibile, supportando, attraverso la venture philanthropy e l’impact investment, anche organizzazioni (profit e non profit) che hanno una missione e un impatto in linea con questi obiettivi. E per farlo al meglio hanno l’umiltà di farsi assistere e imparare dagli altri (esistono in tal senso diverse iniziative nel mondo, come ad esempio, Generation Pledge a livello internazionale, Resource Generation negli Stati Uniti, Resource Movement in Canada e Resource Justice nel Regno Unito).

 

La loro spinta, sempre più travolgente, il crescente interesse per gender lens investing, riconducibile alla S di Social dell’acronimo ESG, unitamente alla disponibilità di dati e di strumenti di benchmarking, stanno contribuendo quindi ad un cambio di paradigma culturale.

 

A 25 anni da Pechino c’è ancora tanta strada da fare in termini di uguaglianza di genere, in particolare nel nostro Paese. Il mio auspicio è che le giovani generazioni conducano e accelerino il cambio di paradigma culturale e, conseguentemente, sociale, unendo donne e uomini per una battaglia comune che, quando vinta, concorrerà alla creazione di una società più equa e sostenibile. Alla mia generazione faccio un appello per facilitare questo processo: abbiamo il compito e la responsabilità di dare spazio alle loro istanze, anche aprendo loro le porte delle “stanze del potere”, dalle quali i giovani nel nostro Paese sono solitamente esclusi, e la governance e la leadership delle nostre organizzazioni.

 

*Carola Carazzone, Segretario Generale di Assifero

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