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Schiavon (Jointly): con Covid il welfare aziendale diventa strutturale

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La persona al centro. Lo si sente ripetere continuamente, sempre più spesso. Le aziende, soprattutto le organizzazioni più complesse, hanno compreso che le risorse umane devono essere oggetto di attenzioni e investimenti. Il welfare aziendale è un capitolo sempre più essenziale nella gestione degli Hr manager. E i provider svolgono un ruolo di partnership essenziale con le direzioni Risorse umane. Tra i provider Jointly è tra quelli riconosciuti più dinamici e consolidati. Elisa Schiavon, marketing manager di Jointly risponde alle nostre domande.

Come si prevede il 2021 per il welfare aziendale?

 

L’attuale pandemia ha evidenziato il ruolo sempre più strategico del welfare aziendale non solo come strumento fiscalmente efficiente ma anche come vero e proprio sistema costruito intorno al benessere e ai bisogni specifici dei propri collaboratori. La crisi ha portato con sé una forte domanda di welfare pubblico in parte disattesa e il welfare aziendale da sussidiario ha mostrato tutta la sua centralità. Basti pensare che un’ampia maggioranza (57,3%) dei contratti depositati al Ministero del Lavoro a dicembre 2020 prevede misure di welfare aziendale (erano il 52,9% nel 2019 e il 46,7% nel dicembre 2018). Crediamo che il 2021 sarà un anno di sfide ed opportunità. Le aziende di fronte alla crisi socio-economica in corso hanno dovuto ripensare profondamente il proprio business e la propria organizzazione e un fattore cruciale si è rivelato l’engagement dei collaboratori e la capacità di “essergli vicino” anche da lontano. Se un piano di welfare viene costruito in maniera coerente rispetto alle diverse necessità dei collaboratori e viene comunicato chiaramente può aumentare fino al 30% il livello di identificazione e di “fedeltà” alla propria organizzazione, elementi fondamentali per garantire produttività e un clima aziendale positivo.

Le aziende clienti che approccio stanno assumendo, in relazione al budget, ai servizi inseriti nel piano di welfare, alle strategie di ascolto verso i dipendenti?

 

Se da una parte c’è contrazione dei risultati aziendali e una revisione dei premi legati alle performance 2020, dall’altra le aziende – dal nostro punto di osservazione – hanno in molti casi risposto con un aumento del budget dedicato alle iniziative di welfare inteso come misure di attenzione alle proprie persone, di people caring. La pandemia è purtroppo lontana dall’essere finita e quindi le misure di welfare adottate dalle aziende in via emergenziale stanno diventando strutturali e rappresentano oggi uno strumento importante per consolidare l’identità organizzativa e per stabilire un patto di fiducia e attenzione verso i propri collaboratori. Più della metà delle imprese con le quali collaboriamo hanno attivato servizi specifici di work life balance e wellbeing, legati alla salute e al benessere psico-fisico delle persone, così come i servizi di supporto alla famiglia e ai caregivers. Come per esempio Jointly Care, che molti collaboratori hanno apprezzato ed utilizzato per ricevere supporto nella ricerca e selezione di un’assistente familiare (20%) e nell’orientarsi tra i servizi di assistenza domiciliare (18%). Un supporto determinante se è vero che in Italia un collaboratore su 3 in azienda si fa carico della cura di un familiare anziano o non auto-sufficiente (fonte Istat) e che per molti di loro (il 77%) questo lavoro di cura diventa di fatto un ‘secondo lavoro’ vero e proprio.

Che integrazione state vedendo tra welfare aziendale e territorio?

 

Le aziende sono sempre più attente al tema della sostenibilità e all’impatto del loro business, in termini ambientali e sociali, nel territorio dove operano. Un’attenzione che nel lungo termine le rende più competitive e che può creare sinergie positive con le autorità locali e le realtà no-profit, nell’ottica di migliorare il benessere della comunità. Per esempio con iniziative di welfare aziendale che siano aperte anche ai famigliari e alla cittadinanza, come il nostro progetto “Push to Open” che accompagna i genitori dipendenti e i loro figli in una scelta più libera e consapevole del percorso di studi, sia alla fine delle medie che del liceo. Le aziende possono offrirsi a una scuola sul territorio, “adottandola”. In termini di impatto lo Sroi, cioè il ritorno sociale sull’investimento, è più che doppio rispetto agli investimenti fatti (2,64 euro per ogni euro investito) ed in particolare la quasi totalità dei genitori dopo aver partecipato ha un engagement più forte verso l’azienda (82%) e uno su due ha sviluppato anche nuove competenze (68%) e ridotto il senso d’ansia per le scelte scolastiche dei figli, migliorando il dialogo con loro (61%) . Anche per i ragazzi é stata un’occasione di crescita unica nel suo genere (70%). Questo programma ha anche un “impatto Paese” perché riduce del 20% il rischio di non lavorare né studiare e la totalità delle scuole é molto soddisfatta di avervi preso parte. Quello che osserviamo quindi è da un lato un tandem tra sostenibilità e welfare aziendale; e dall’altro una sinergia sempre maggiore tra welfare aziendale – in prima istanza dedicato ai soli collaboratori – e impatto socio-economico positivo sul territorio.

Nelle dinamiche di sviluppo del welfare aziendale si sta proponendo sempre più spesso come partner, e non più solo come fornitore di servizio, il mondo che fa riferimento al Terzo Settore. Voi come vedete evolvere questa offerta sociale? Che relazione avete con il Terzo settore?

 

Oramai il mondo dell’imprenditoria sociale ha abbracciato perimetri più ampi rispetto a quelli tradizionali del terzo settore e può essere un partner locale molto interessante per l’erogazione di alcuni servizi, grazie alla loro capillarità e al senso valoriale che portano nel loro mandato.

Il ruolo dei provider nell’evoluzione del welfare aziendale sembra ormai costretto tra due poli: l’erogazione, la disponibilità e la fruibilità di buoni spesa versus consulenza. Oppure una capacità consulenziale a tutto tondo, trasversale come è trasversale il concetto di welfare, che va dalla protezione sociale di tipo sanitario, alla copertura assicurativa integrativa per sanità e previdenza. E poi i fringe benefit. Dove pende la bilancia della proposta tra gestori di buoni spesa e consulenza aziendale a tutto tondo?

 

Più che di aut-aut è corretto parlare di complementarietà. L’uso di uno strumento non esclude quello dell’altro e spesso dipende dal grado di maturità organizzativa di un’azienda. Il sostegno al reddito resta fondamentale, soprattutto in questo periodo e l’aumento della soglia dei fringe benefit nel 2020 ha permesso a molte realtà di offrire un ulteriore supporto economico propri collaboratori. È una prima misura immediata per trasmettere un segnale di attenzione e che permette di aprire un dialogo con le persone con cui lavoriamo. Perché questo dialogo si trasformi in fiducia e engagement deve però evolvere in un piano di welfare più strutturato, a partire dall’analisi dei singoli bisogni, dal coinvolgimento proattivo nell’identificare un’offerta su misura. In una fase storica come questa – di forzata distanza sociale – questi elementi diventano ancora più rilevanti.

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