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Il lavoro da remoto e la trasformazione del welfare aziendale

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Il mercato dell’offerta di welfare aziendale è presidiato da oltre cento provider, di diversa natura e storia. Piattaformisti, consulenti, erogatori di buoni spesa: si tratta sempre di partner essenziali per le aziende che vogliano rendere concreto lo slogan: “la persona al centro”. Tra i provider più attivi c’è sicuramente Welfare4You. Al suo ceo e fondatore, Paolo Barbieri, abbiamo fatto alcune domande sulla congiuntura che stiamo attraversando.

 

Come si prevede il 2021 per il welfare aziendale? Dopo l’anno orribile appena archiviato, quale sviluppo possiamo attenderci per il welfare aziendale?

 

 

Il welfare aziendale (WA) vive una fase di trasformazione indotta dalla pandemia che ha spinto molte aziende a rivedere i contenuti dei loro piani. In qualche caso aleggia la tentazione di “tagliare” i budget, mentre in altri sarà il meccanismo a suo tempo prescelto a creare difficoltà (come i premi di risultato, PdR, non erogabili per mancato raggiungimento dei target). Nelle aziende più attente al valore delle persone il WA si rafforzerà, magari non molto sul piano del valore economico, per ovvie ragioni contingenti, ma su quello “sociale”. L’attenzione verso i servizi che possiamo raggruppare nell’ambito del “people care” è aumentata rispetto a quelli adesso meno necessari e che in buona parte non sono fruibili o lo sono con meno appeal (palestre, viaggi). In particolare, oltre alla inevitabile attenzione per il tema della salute che ha ampliato le coperture assicurative anche al rischio di contagio, maggiore rilievo hanno avuto ed avranno anche quei servizi che hanno più diretta attinenza con la condizione “remotizzata” che i lavoratori, così come i loro figli in età scolare, stanno vivendo da ormai circa un anno.

 

 

Con il lavoro da remoto deve essere modulata diversamente anche l’offerta di welfare aziendale.

Hanno trovato spazio servizi online con i quali si è potuto dare risposta alle criticità sia psicologiche che pratiche generate dalla commistione tra lavoro, studio e necessità di cura concentrate nell’unico luogo in cui le persone oggi si trovano a vivere: la propria abitazione. Alludo a servizi di supporto come il counseling e un’ampia scelta di opportunità per il sostegno all’istruzione.

 

 

È il tempo dell’ascolto delle persone in azienda?

Certo. E il 2021 confermerà questo trend che impone alle direzioni HR di porsi in maggiore ascolto delle persone posto che le aziende, soprattutto nella fase più critica della pandemia, sono state spesso percepite dai lavoratori come “comunità di destino” nelle quali hanno trovato risposte importanti alle tante ansietà che la condizione nella quale ci si è trovati ha scatenato. Ciò ha accresciuto le responsabilità delle imprese che, sul piano degli interventi di WA, dovranno farsi portatrici di risposte sempre più centrate sui reali bisogni dei lavoratori. Tra questi quello che molte ricerche avevano già evidenziato in passato: la necessità di formare i lavoratori al più corretto approccio al piano di WA, aiutandoli nella più razionale allocazione dei budget individuali sulla base di una più sviluppata lungimiranza per le esigenze di medio-lungo termine piuttosto che di breve termine. Ovviamente tutto ciò è ipotizzabile se riferito a programmi di WA che abbiano la caratteristica di porsi come sistemi di tutela e non come il frutto di policy premiali che, come tali, sono aleatorie e quindi non in grado di seguire il welfare life cycle dei singoli beneficiari dei programmi di WA. Come provider stiamo offrendo alle aziende anche questo supporto formativo per i loro team e stiamo dialogando anche con i sindacati perché una specifica formazione è spesso necessaria anche per i loro delegati.

Le aziende che approccio stanno adottando in relazione alla definizione dei budget e delle strategie per confezionare i nuovi piani di welfare?

 

 

Le difficoltà rispetto alla continuità nel finanziamento dei piani dei WA, specie quando il welfare sia di origine produttivistica (PdR) è evidente, ma difficoltà si registrano anche con riferimento ai piani di WA “on top” in considerazione del peggioramento dei risultati conseguiti dalle imprese che sta spingendo le aziende a ricercare nuove possibili fonti di finanziamento degli interventi. Su questo la diffusione del lavoro da remoto si sta dimostrando capace di liberare risorse, ad esempio per il minor costo associato al lavoro straordinario, ai permessi retribuiti e ad altre voci collegate al lavoro “in presenza” (tra le quali i buoni pasto). Dato che anche il 2021 sarà un anno di “passione” per i conti aziendali, le criticità legate ai meccanismi associati alla defiscalizzazione dei PdR potrebbero far propendere per il “welfare premiale” che ha se non altro due vantaggi: non serve un contratto integrativo (basta un regolamento aziendale) ed è libero dai “paletti” della disciplina dei PdR. Con questa formula, oltretutto, si potrà premiare lo sforzo messo in campo dai lavoratori in questa difficilissima fase anche nel tentativo di contenere il calo delle performance aziendali: un’ipotesi non percorribile stando alla disciplina dei PdR in base alla quale il “cigno nero” non esiste e i risultati aziendali devono essere, di anno in anno, sempre incrementali.

 

Che integrazione vedete tra sviluppo dei servizi di welfare aziendale e il territorio?

 

L’economia colpita dalla pandemia è soprattutto quella della piccola e della piccolissima impresa. Il commercio di prossimità soffre notevolmente. Mettere in relazione WA e territorio significa oggi realizzare le premesse per un più stabile incontro tra domanda ed offerta di beni e servizi di WA a livello locale. Il WA, infatti, è anche una modalità con la quale la ricchezza prodotta nelle aziende e distribuita ai lavoratori anche sotto questa forma possa tornare al territorio nella misura in cui quella ricchezza sia utilizzata per acquistare ciò che il tessuto economico locale offre. Dare allora visibilità agli operatori presenti nelle aree nelle quali le imprese sono basate e le loro persone vivono significa orientare in modo responsabile l’utilizzazione dei budget: qualche acquisto in meno sulle piattaforme dell’e-commerce non provocherà nessun danno ai colossi mondiali che le gestiscono, mentre qualche acquisto in più, effettuato nelle realtà locali che offrono beni e servizi coerenti con i piani di WA, aiuterà la ripresa dell’economia territoriale. Ciò è interesse delle stesse aziende datrici di lavoro: stare in territori economicamente sani e in ripresa giova anche al loro business.

 

Come evolve la relazione con il Terzo Settore?

 

 

Le realtà del Terzo Settore sono, ad un tempo, nostri competitor (quando si strutturano come Provider di WA) e partner di servizio, perché molte di esse operano nell’erogazione di interventi tipici del WA (si pensi all’assistenza domiciliare per anziani e disabili o ai servizi di sostegno all’educazione e all’istruzione). Talvolta le realtà del Terzo Settore diventano anche un partner commerciale dei Provider come quando, per entrare nel settore dei servizi gestionali di supporto al WA, concludono accordi per “rivendere” la piattaforma di quest’ultimo. Noi siamo molto interessati al loro ruolo di partner di servizio perché la competenza e la capacità di “lettura” dei bisogni e di identificazione delle risposte che il territorio può dare è una tipica espressione di un know-how che nessun Provider profit può avere: mettere insieme i saperi aumenta la catena del valore generato per il cliente finale che spesso è poi anche un cliente comune: il lavoratore dell’azienda mia cliente è anche il genitore del bambino che frequenta l’asilo gestito dalla cooperativa sociale o è un parente del disabile o dell’anziano assistito da un’altra cooperativa attiva sul territorio.

 

Nel quadro degli interventi di sostegno al rilancio dell’economia nulla sembra riguardi il WA. Miopia del legislatore?

 

Sicuramente al WA poteva essere dedicata una maggiore attenzione. Prendiamo l’incremento della soglia di esenzione fiscale e contributiva dei fringe benefit passati per qualche mese a 516 euro dagli originari 258 euro ed ora tornati al valore precedente. Quei 516 euro erano importanti: non era esattamente “fare WA”, ma alzare stabilmente quella soglia avrebbe aiutato tantissime PMI a trovare una formula agile per sostenere i redditi dei lavoratori (516 euro non sono poi lontanissimi dal valore medio di un “conto welfare”, almeno in fase “entry level”). Invece no, si è tornati ad un valore stabilito nel 1986 e mai più aggiornato nemmeno sulla base degli indici ISTAT. Dicesi 1986: un’era geologica fa.

 

C’è poi un capitolo che riguarda i premi di risultato.

 

Si poteva introdurre, almeno nell’emergenza, la possibilità di riconoscere il favor fiscale anche per le ipotesi in cui il target raggiunto fosse quello del contenimento delle perdite (in termini di fatturato, volumi prodotti, ecc.). Questo avrebbe consentito di riconoscere, tramite il WA, lo sforzo fatto dai lavoratori per tenere in piedi le aziende. In prospettiva, pensando all’evoluzione del WA, condivido le tesi esposte da alcuni esperti (penso a Scansani, Pesenti, Delle Cave) ossia che, sul piano fiscale, sia arrivata l’ora di fare un più netto distinguo tra i servizi oggetto della deroga contenuta nell’articolo 51 del TUIR. Un distinguo da basare sulla maggiore meritorietà sociale. Tutto l’ambito del people care andrebbe maggiormente incentivato, come un maggiore incentivo dovrebbero poterlo ricevere i budget individuali stanziati dalle aziende in favore dei lavoratori che hanno specifici “carichi di cura” (minori, disabili, anziani). Le aziende più attente hanno già iniziato ad usare dei “correttivi” che, fatto 100 il valore del “conto welfare” stabilito ritualmente sulla base dell’inquadramento contrattuale, lo elevano proprio in funzione delle criticità del nucleo familiare del lavoratore.

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