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Ilva primo test per transizione ecologica Draghi

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L’ex Ilva di Taranto è una polveriera che avvelena il territorio. Il suo inquinamento è “devastante per l’ambiente e la salute”. Ora, il grande siderurgico tarantino dovrà spegnersi entro 60 giorni. Non sono certo carezze quelle che in queste ultime ore sono piovute sulla fabbrica d’acciaio. Un mix di accuse che arrivano direttamente dalla procura di Taranto, con il processo ‘Ambiente svenduto’, e dal Tar di Lecce che ha deciso di dare due mesi di tempo per l’adeguamento delle emissioni degli impianti a valori decisamente più bassi oppure chiudere l’area a caldo.

E’ per questo che l’Ilva potrebbe diventare il primo banco di prova per la transizione ecologica, sicuramente. Ma non solo. Anche per quel pezzo di transizione che intreccia il digitale, l’innovazione, la formazione lavorativa, tenendo insieme la salute e la difesa dell’ambiente, e quel cambiamento necessario e urgente che guarda ai principi ispirati dallo sviluppo sostenibile e dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

Il quadro a Taranto non è incorragiante. L’ultima sentenza, quella del Tar, è soltanto una conferma: il pericolo per la popolazione derivante dalle emissioni dei forni – gli stessi che si vorrebbe mettere a tacere – è “permanente ed immanente”. Del resto dal processo per disastro ambientale – legato agli anni della gestione in capo alla famiglia Riva – emerge la correlazione tra emissioni inquinanti, malattie e decessi, tanto che la deduzione per il Pm è logica: l’Ilva e Taranto si sono stretti in un “abbraccio mortale”. Nelle ultime ore è arrivata anche la richiesta di 35 condanne, e della confisca degli impianti dell’area a caldo, e di 2,1 miliardi di euro, somma che dovrebbe corrispondere al profitto illecito (che potrebbe e dovrebbe esser usato per sistemare la situazione).

Quello che manca all’Ilva è l’adeguamento tecnologico, la riconversione in chiave ambientale degli impianti. E’ un tema che però continua a mancare da anni. Troppi. Che si trascina nella tensione, instancabile e uguale a se stessa, del limbo di un Piano industriale sostenibile – puntualmente richiesto, contrattato, e poi presentato – che non diventa mai realtà.

Tutto lascia pensare che proprio l’ex Ilva potrebbe essere allora uno dei primi test per il nuovo ministero della Transizione ecologica voluto da Mario Draghi, che lo ha istituito ridisegnando il perimetro del ministero dell’Ambiente a cui ha aggiunto le competenze sull’energia prese dal ministero dello Sviluppo, e un pizzico di economia per dargli operatività (non certo poca roba a dire il vero, se si pensa che una bella fetta di risorse del Recovery, 69 miliardi, passeranno in quei corridoi).

Al presidente del Consiglio si appellano anche il governatore della Puglia Michele Emiliano, che non vede “alternativa alla decarbonizzazione degli impianti” se non “la chiusura”, e il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci che, con la sua ordinanza di febbraio dell’anno scorso, ha portato fino alla decisione del Tar. Chiedono un accordo di programma per la città jonica; cosa che potrebbe essere una soluzione di fronte al conto alla rovescia per lo spegnimento dei forni che scade il 14 aprile, al di là dell’annunciato ricorso al Consiglio di Stato.

La chiusura dell’area a caldo – vero cuore pulsante dell’acciaieria – può diventare un rischio per la sicurezza. Si tratta di una procedura che, una volta iniziata, non consente di tornare indietro, mettendo in pericolo anche l’integrità degli impianti. Ed è anche per questo, oltre che per le ricadute economiche, che Confindustria e Federacciai lanciano l’allarme e chiedono di non fermare la produzione: in gioco – dicono – non c’è solo lo stabilimento di Taranto ma il futuro della siderurgia in Italia. Chiudere gli impianti dell’area a caldo potrebbe avere come conseguenza il “crollo” di tutto l’asset aziendale di Ilva in amministrazione straordinaria, quindi di un pezzo di Stato, che si trova ora nella società con ArcelorMittal. Spegnere, di fatto, significherebbe “un blocco totale della produzione dello stabilimento”.

Diventa allora ancora più urgente il senso di un intervento del nuovo governo: una chiamata alle armi per tutelare l’intreccio tra ambiente, salute e posti di lavoro. C’è da credere che il dossier Ilva sarà infatti scodellato sul tavolo del nuovo governo in tempi strettissimi: troppo importante il peso specifico per il nostro Paese di quella che una volta era la fabbrica più grande d’Europa. Senza contare che la cittadella dell’acciaio, oltre a essere un’area di crisi aziendale, è diventata anche un Sito di interesse strategico. E che le famiglie messe in pericolo da una sua eventuale chiusura sarebbero 20mila, tra lavoro diretto e indotto. I ministri coinvolti dovrebbero essere almeno quattro: Roberto Cingolani alla guida della Transizione ecologica, Giancarlo Giorgetti per lo Sviluppo economico, Andrea Orlando per il Lavoro, Enrico Giovannini per le Infrastrutture. E non un dato ininfluente proprio il fatto che l’industria ora contempla anche lo Stato italiano (come detto l’ex Ilva in amministrazione straordinaria, che poi significa Invitalia).

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