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Centinoni (Ewa): no a 50% risorse Recovery solo a donne

Utilizzare metà del Recovery Fund per favorire l’occupazione femminile e colmare il divario di genere che affligge il nostro paese molto più di altri partner europei. Richieste come queste, da gennaio a oggi, hanno riecheggiato dalle piazze italiane alle grandi testate, rimbalzando sulle piattaforme social dove hanno ottenuto centinaia di migliaia di “like” e di condivisioni. Un battage mediatico che raramente abbiamo visto in queste dimensioni, in anni recenti, benché i motivi per riportare all’attenzione pubblica italiana le ben note questioni di genere non siano certo mancati. Quello che è cambiato drasticamente rispetto al passato è il contesto: in Italia, dove il carico della cura familiare già prima del Covid pesava per il 67% sulle spalle delle donne, a ‘pagare’ per la pandemia sono state soprattutto queste ultime oltre che i giovani, cioè le fasce che economicamente erano già più deboli. E’ questa la realtà fotografata a dicembre sia dall’Istat che, tra gli altri, da Caritas International. Mentre il primo, a dicembre, rilevava un tasso di occupazione femminile sceso dal 50 al 48,5%, il rapporto di Caritas sulla povertà, nello stesso periodo, segnalava un preoccupante aumento delle richieste di assistenza presentate dalle donne: il 54,4% contro il 50,5% del 2019.

Ma investire almeno il 50% del piano emergenziale Next Generation Ue – come chiedono a gran voce una ventina di associazioni civili per i diritti delle donne – è veramente una soluzione ragionevole e praticabile per cambiare la situazione? Abbiamo girato la domanda a chi, a Bruxelles, è impegnato in prima linea contro le discriminazioni di genere, conosce l’approccio europeo su questi temi e, soprattutto, è “dentro” i complessi meccanismi negoziali Ue. Alessia Centioni come political advisor al Parlamento Europeo si occupa di affari legislativi in materia di mercato interno, commercio internazionale, politica estera e difesa. Dal suo ufficio segue attentamente i movimenti per mettere al centro del Recovery le donne anche perché quattro anni fa, con un gruppo di colleghe, ha fondato l’associazione apartitica e transnazionale European Women Alliance (EWA), la no-profit che oggi presiede con l’obiettivo di mettere al centro dell’agenda politica europea le questioni di genere.

“In generale – spiega – sosteniamo le iniziative che chiedono di investire le risorse di Next Generation Ue tenendo conto del genere, sia per spirito di solidarietà, sia perché questi gruppi si prefiggono soluzioni assolutamente condivisibili a problemi che, in Italia, sono sempre gli stessi”. Centioni non nasconde però le sue perplessità “di metodo più che di merito” rispetto le rivendicazioni che s’ispirano a “Half of It”, la prima campagna europea di questo tipo, lanciata dall’eurodeputata tedesca Alexandra Geese, e ribattezzata in Italia “Il GiustoMezzo”.

Spendere la metà dei fondi Ue in progetti per accorciare il gap di genere e creare occupazione femminile “è una richiesta velleitaria e infondata perché dal punto di vista econometrico non si giustifica in nessun modo che il genere femminile debba ricevere la metà dei fondi perché rappresenta la metà della popolazione“. La campagna della Geese, secondo Centioni, si fonda sull’assioma – da cui EWA ha sempre preso le distanze “con forza” – che l’Ue dovrebbe concentrare i suoi investimenti in quei settori che impiegano maggiormente le donne, quindi non sulla green economy e sul digitale perché questi settori non sono a forte occupazione femminile. “Ma questa teoria se applicata, prosegue, avrebbe l’effetto di cristallizzare le segregazioni attualmente esistenti nel mercato del lavoro, penalizzando ancora di più le donne che, soprattutto in Italia, spesso svolgono lavori poco qualificati e qualificanti ma anche meno tutelati dal punto di vista contrattuale”`. Non serve investire in settori che vedono già ampia presenza femminile, conclude, “bisogna piuttosto creare delle leve per spingere verso l’alto l’occupazione femminile, sia in termini qualitativi sia in termini quantitativi”.

A Bruxelles, insomma, c’è chi teme che movimenti come “Half of It” o “Giusto Mezzo”, che hanno comunque arricchito le proposte sul Recovery, rischino di finire come molti slogan politici: ottime trovate per i giornali e per i flashmob, ma senza nessuna concreta possibilità di tradursi in realtà. “Quando il 30 aprile i paesi membri presenteranno a Bruxelles i loro progetti da finanziare nell’ambito di Next Generation Ue, afferma ancora Centioni, questi movimenti potrebbero prendersi una sonora sberla, dimostrando ancora una volta che il femminismo in Europa è destinato a fallire”.

Oltre a Italia e Germania, quali altri Paesi Ue hanno accolto con favore iniziative per consacrare il 50% del Recovery Fund ai progetti di genere?

“Non mi risulta che in altri Paesi istanze come questa abbiano ricevuto particolare considerazione, al contrario il dibattito altrove si è piuttosto focalizzato sulla qualità delle politiche pubbliche e degli interventi da finanziare con il piano per la ripresa. Il fatto che la richiesta per un’equa divisione dei fondi in base al genere sia rimasta tutto sommato confinata a pochi è un altro aspetto che conferma il limite di un approccio gender probabilmente viziato da un certo provincialismo”.

Ciò che fa la differenza, allora, è una politica pubblica di qualità piuttosto che di genere?

“L’Europa, per uscire da una crisi senza precedenti, deve investire in infrastrutture come strade e reti oltre che favorire la conversione dei settori economici non più sostenibili. Come possiamo dire che un’autostrada o una rete sarà utilizzata da donne? In Italia ci si scorda spesso che molte lavoratrici vivono ancora in situazioni tipiche dell’Inghilterra di Dickens. Basti pensare al dramma delle dipendenti dell’interporto di Bologna, tuttora sottomesse ai ricatti di Yoox e costrette a scegliere tra turni a orari impossibili e licenziarsi per potersi prender cura dei figli. Utilizzare i fondi Ue per politiche di qualità, significa dare un futuro migliore anche ai figli di quelle migranti”.

Ad EWA, puntualizza Centioni, “interessano i risultati tangibili quelli che si traducono in testi di direttive e in documenti politici”. Non a caso uno dei primi risultati raggiunti è stato il lancio, due anni fa, del Women’s European Council, il pre-summit permanente delle donne che anticipa il Consiglio Ue, volto a sensibilizzare i capi di stato e di governo rispetto l’adozione di politiche pubbliche che favoriscano le pari opportunità e contrastino le disuguaglianze sociali. Ewa, tra l’altro, ha contribuito alla proposta della prima direttiva Ue sulla trasparenza salariale (che la Commissione Van der Leyen dovrebbe a breve discutere) e alla proposta d’istituire un Consiglio Ue specifico per l’uguaglianza di genere in seno al Consiglio Europeo, un testo che ha già ricevuto l’ok dell’Europarlamento.

Parità di genere con le quota rosa o, come sostiene Draghi, attraverso pari opportunità, cioè uguali condizioni competitive?

“Negli anni le quote rosa sono state travisate a scapito delle donne e considerate erroneamente uno strumento per farle promuovere in posizioni apicali a dispetto del loro merito. Questa è una narrazione falsa, da distruggere alla radice perché le quote non sono nate in Italia per fare avanzare le donne, ma per limitare uno strapotere maschile, un loro privilegio che è privo di criterio etico. Nel caso italiano si è dovuto constatare che non c’era altro modo per limitare questo privilegio se non introducendo una norma. E sempre il caso italiano dimostra che laddove le quote sono state imposte per legge, cioè nei Cda delle società quotate in borsa grazie alla legge Golfo Mosca, i frutti sono stati molto positivi. Le quote rosa consentono di limitare il privilegio ingiustificato altrui e non provo alcuna vergogna ad affermare che in Italia sono purtroppo uno strumento necessario”.

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