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316 settimane al vertice della classifica Atp (Association of Tennis Professionals): il record di Djoković, in continuo aggiornamento, apre un nuovo capitolo dell’appassionato dibattito sul GOAT, Greatest of All Time, di uno degli sport più amati e praticati. L’occasione è anche propizia per discutere non solo di risultati ma anche di marketing (sportivo), reputation e approccio manageriale: tutte componenti non trascurabili nella percezione del valore sportivo, dunque economico, di atleti che arrivano a fatturare più di un’azienda di medie dimensioni.

Diventato professionista nel 2003 – cinque anni dopo Federer e due dopo Nadal – Nole ha così passato più di un terzo della sua fantastica carriera al #1 della classifica che dal 23 agosto 1973 definisce, settimana dopo settimana, le gerarchie del tennis mondiale con effetti non trascurabili sulla composizione dei tabelloni dei tornei del circuito professionistico. È un giovedì, lo stesso giorno in cui Jan-Erik Olsson tenta di rapinare la filiale della Kreditbanken, nel centro di Stoccolma, dando vita all’omonima paradossale ‘sindrome’ in cui la vittima di un rapimento finisce per solidarizzare con il suo sequestratore. Rapiti dal fascino del tennis, milioni di appassionati da quegli anni inizino ad affollare i campi da gioco (e i negozi di abbigliamento sportivo) di tutto il mondo cercando di emulare le gesta dei loro beniamini.

Viviamo un’epoca in cui lo sport è sempre più ‘efficace’ per promuovere i marchi a livello internazionale permettendo alle aziende di raggiungere con la loro comunicazione gli angoli più remoti del pianeta. Tuttavia, non basta più legare l’immagine del proprio brand a un campione: servono storie vere da raccontare e la capacità di offrire esperienze coinvolgenti. La discussione sul GOAT, a ben guardare, è essa stessa un potente strumento di promozione, molto utile per eccitare gli animi dei tifosi e fidelizzarli.

Greatest of All Time

Anche chi scrive – è meglio chiarirlo subito – non crede possibile ignorare, nella definizione di questa particolare classifica, l’evoluzione delle attrezzature tecniche, dell’attitudine e dell’alimentazione, della facilità e comodità negli spostamenti. Un approfondimento meriterebbero poi la preparazione dei campi (con una sempre maggiore uniformità di ‘velocità’ tra tutte le superfici), la fornitura di palline ma, soprattutto, un’attenta ricostruzione della tortuosa nascita dello stesso Atp Tour con una storia di veti incrociati che, fino alla definitiva unificazione di tutte le Associazioni, nel 1990, ha anche limitato la possibilità degli atleti di partecipare ai tornei e di fare la storia di questo sport.
A esempio, per un racconto chiaro e meticoloso del clamoroso ‘boicottaggio’ da parte della stessa Atp dell’edizione del 1973 del torneo di Wimbledon si rimanda a The History of Tennis: Legendary Champions, Magical Moments di Richard Evans (Rizzoli, New York, 16 marzo 2021), un appassionante viaggio nel mondo del tennis da Bill Tilden a oggi. Quell’anno, ottanta dei principali giocatori – tra cui Arthur Ashe, John Newcombe, Ken Rosewall e Stan Smith (quello delle ‘mitiche’ Adidas) – si ritirano dai Championships solidarizzando con Nikki Pilic a cui è impedita, con una decisione controversa, la partecipazione al torneo.

Come si stabilisce chi è il più grande di tutti i tempi?

Quanto contano i risultati sportivi? Ovviamente moltissimo. Analizzando quelli dell’Era Open sembrerebbe però facile dimostrare come non sempre i verdetti del rettangolo di gioco siano stati proporzionati alla fama (e alla raccolta di sponsorizzazioni) del campione di turno. Ufficialmente iniziata il 22 aprile 1968 con il torneo di Bournemouth, a quarant’anni dallo strappo della divina Suzanne Lenglen – che nel 1927 vinse il primo match ‘professionistico’ con l’americana Mary Brow innescando un ciclo di emulazioni che portarono, innanzitutto, all’esclusione del tennis dai Giochi Olimpici di Amsterdam ‘28 con evidente disappunto della neo-riconosciuta ‘International Lawn Tennis Federation’ (I.L.T.F. un acronimo che, fino al 1977, riporta la consuetudine di uno sport giocato prevalentemente su prato) – gli albori dell’era professionistica sono legati al ricordo di Ilie Nastase.

Ilie Nastase, 1973
Credits Photo by Evening Standard/Hulton Archive/Getty Images
Ilie Nastase, 1973
Credits Photo by Evening Standard/Hulton Archive/Getty Images

L’istrionico rumeno rimane però più famoso per i successi fuori dal campo che per quelli sportivi. Potendo vantare oltre 2.500 relazioni amorose, la rivista Maxim lo ha piazzato alla sesta posizione della Top 10 delle ‘leggende viventi del sesso’.
‘Nasty’ fu il primo #1 del Ranking ATP e primo testimonial per le calzature di una giovanissima Nike (fondata otto anni prima a Eugene, in Oregon, da un docente di ‘reazione competitiva’ e da un suo studente).

1970

Nel repertorio generale degli anni Settanta il tennis, con una combinazione di gesta sportive sui campi e comportamenti sopra le righe fuori, riesce a guadagnarsi un notevole spazio di visibilità. È il decennio in cui eventi e personaggi di questo sport straripano gli argini dell’alveo alto-borghese di club più o meno esclusivi arrivando a influenzare l’immaginario collettivo, estetica compresa. L’allora Grand Prix fa il suo esordio nel 1970 sponsorizzato per intero da Pepsi-Cola.

I brand sportivi diventano di tendenza e i Top players che li indossano celebrities capaci di superare per notorietà gli attori dello spettacolo. Anni dominati dalle imprese, anche mondane, di Björn Borg. Tra il ‘74 e l‘81 l’orso di Stoccolma vince 11 titoli dello Slam (cinque Wimbledon consecutivi e sei Open di Francia, ancora oggi secondo solo a Rafa Nadal per numero di vittorie in questo torneo). Grazie ai successi del suo testimonial il brand italiano Fila – fondato nel 1911 a Coggiola, nel cuore del distretto tessile biellese – può in quegli anni ambire al ruolo di leader indiscusso nello sportswear a livello mondiale. Meno nitido è il ricordo di Jimmy Connors, tennista trai più eleganti, longevi e vincenti di sempre. Il tennista statunitense diventa professionista nel ’72 e vince 8 Slam in carriera. Nel ‘74 riesce a imporsi in tre dei quattro tornei maggiori ma non ha neanche la possibilità di competere per la conquista del Grande Slam – impresa riuscita nella storia del tennis solamente a Donald Budge (1938) e Rod Laver (‘62 e ‘69) – non potendo partecipare al Roland Garros per i contrasti tra associazioni di cui si è già detto ed essendo lui appartenente al Team Tennis. L’anno successivo Jimmy è sconfitto, da campione in carica e super favorito, nella leggendaria finale che porta Arthur Ashe a essere il primo, e ancora oggi unico, uomo di colore a vincere Wimbledon (al Roland Garros il primato spetta all’esuberante tennista francese di origini camerunensi Yannick Noah, 1983). Anche in quella finale l’Italia è protagonista con l’outfit tricolore di Jimmy Connors vestito da Sergio Tacchini.

Arthur Ashe e Jimmy Connors finalisti di Wimbledon ‘75
Credits Photo by Focus on Sport via Getty Images
Arthur Ashe e Jimmy Connors finalisti di Wimbledon ‘75
Credits Photo by Focus on Sport via Getty Images

Ad Arthur Ashe – prematuramente scomparso il 6 febbraio 1993, a pochi mesi da quello che sarebbe stato il suo cinquantesimo compleanno, a causa della sindrome da immunodeficienza acquisita in seguito a una trasfusione di sangue avvenuta durante una delle operazioni al cuore cui è costretto per l’aggravarsi dei problemi cardiaci che lo portarono al ritiro – è dedicato il campo centrale degli impianti di Flushing Meadows, sede degli US Open.

1980

Leggendarie sono anche le sfide tra Borg e McEnroe degli inizi degli anni ‘Ottanta ma il più regolare e vincente di quell’epoca fu lo schivo Ivan Lendl. Chi volesse analizzare l’atavico rapporto tra genio (The Genius) e forza di volontà, prima di rivolgersi ai testi di Arthur Schopenhauer provi a rivedere per intero – premiazione compresa – la finale degli Open di Francia del 1984. Sono gli anni della mitica Peugeot 205 cabrio firmata da Pininfarina. La casa automobilistica, oggi italo-francese, decide di legare il suo brand al tennis sin dai primi anni del professionismo e, alla fine di quel decennio, lancia la ‘Roland Garros’: versione super-accessoriata della ‘piccola’ decappottabile destinata ad avere subito grandissimo successo. Sono anche gli anni dei trionfi della qualità sartoriale del Made in Italy con due marchi anch’essi piemontesi (la stessa Fila e la Sergio Tacchini fondata, nel 1966 nel novarese, da un ex-tennista di buon livello) che arrivano quasi sempre in finale nel Grande Slam. 

John McEnroe, Wimbledon 1980
Credits Adam Stoltman / Alamy Stock Photo
Björn Borg e John McEnroe, finale del Torneo di Wimbledon, 4 luglio 1981
Credits Photo by Professional Sport/Popperfoto via Getty Images/Getty Images

 

Gli anni ‘Ottanta si chiudono con l’incredibile vittoria al Roland Garros (in finale contro Lendl) del diciassettenne Michael Te-Pei Chang, ancora oggi il più giovane vincitore di uno Slam. Quella finale è anche entrata nella storia del tennis, prima ancora dei ‘tic’ e dei riti scaramantici di Nadal, per questioni non propriamente sportive: l’uso ‘scientifico’ (abuso) della pausa fisiologica, il consumo frenetico di banane (oggi sdoganato e di gran moda) e il servizio a ‘cucchiaio’.

1990

Gli anni Novanta sanciscono, oltre alla nascita dell’Atp Tour, l’inizio del dominio totalizzante di Nike anche in questo sport. L’azienda statunitense si appresta a fare nel tennis quanto gli è già riuscito nel basket Nba (con Converse e Reebok): sbaragliare la concorrenza!
In quegli anni Sampras vince molto di più del più celebre e celebrato Andre Agassi. Pete si afferma in 14 Slam, sei in più del connazionale che batte in quattro dei cinque confronti diretti nelle finali di un Major. All’esuberante campione di Las Vegas riesce però di diventare il quinto uomo capace di vincere in carriera tutti e quattro i tornei del Grande Slam, dopo Fred Perry, Don Budge, Rod Lever e Roy Emerson. Negli anni 2000 l’elenco si è poi allungato fino a otto con Federer, Nadal e Djokovic.
La complementarità dell’impatto mediatico (e del relativo target di riferimento) dei due tennisti americani diventa, quindi, un valore aggiunto da cui tutte le parti impararono a trarre vantaggio, specie se a profittarne è il medesimo sponsor. Anche Sampras, agli esordi, è vestito da Sergio Tacchini mentre Agassi chiude la sua carriera con Nike, a cui si lega sin dal 1988, dopo una breve collaborazione con Adidas (2006), già partner di sua moglie Steffi Graf. ‘Pistol Pete’ passa a Nike nel 1993, passaggio che simboleggia l’inizio della ‘nuova’ epoca. Internet esiste già ma non è ancora così diffusa e, allora, i tennisti spopolano negli spot televisivi.

I Fantastici 4

La vera novità degli ultimi due decenni– che dà la cifra del profondo cambiamento che (soldi) scienza e tecnica hanno portato in questo sport arrivando anche a raddoppiare la longevità agonistica dei suoi protagonisti principali – è nei fatti la presenza al vertice di quattro fantastici atleti che hanno vinto praticamente tutto quello che si poteva vincere lasciando solo le briciole alle decine di ottimi tennisti (da Wawrinka a Del Potro, a Ferrer) che in questi anni si sono affacciati alla ribalta dovendosi accontentare dello scomodo ruolo di comparse. Un pensiero va quindi al ‘rude’ Robin Söderling, testimonial della veneta Lotto Sport Italia di Montebelluna. Il tennista svedese fu costretto a un prematuro ritiro per infortunio non prima di aver conquistato due finali Slam e il 4° posto della classifica Atp e aver contribuito ad accrescere il mito di Roger Federer spianandogli la strada per la prima e unica vittoria all’Open di Francia (2009) eliminando inaspettatamente dal torneo, al quarto turno, l’allora quattro volte campione in carica Nadal (oggi le vittorie dello spagnolo in questo torneo sono 13, record assoluto per un singolo torneo Major). Quella vittoria (6-2 6-7 6-4 7-6) rende Söderling il primo e – fino al 2015, quando Djoković ripete l’impresa, nei quarti, con un perentorio 7-5 6-3 6-1 – unico giocatore in grado di battere Rafa al Roland Garros.

Robin Söderling batte Rafa Nadal ai quarti degli Open di Francia del 2009
Credits Photo Eurosport
Robin Söderling batte Rafa Nadal ai quarti degli Open di Francia del 2009
Credits Photo Eurosport

 

Questo periodo è dominato, almeno mediaticamente, dal divo (e divino, per molti oltre che per David Foster Wallace) Roger Federer. Ma è davvero lui il più grande di tutti i tempi? Stando ai numeri sul campo non si direbbe. Ma, in generale, cosa sarebbe stato Borg senza McEnroe? Agassi senza Sampras? Federer senza Djoković, Murray e Nadal? Il tennis senza Nike?

Se è vero com’è vero che il campione svizzero detiene ancora, a pari merito con Rafa Nadal, il record di 20 vittorie nei tornei del Grande Slam (6 Australian Open, 1 Roland Garros, 8 Wimbledon e 5 US Open lo svizzero, 1 Australian Open, 13 Roland Garros, 2 Wimbledon e 4 US Open lo spagnolo), anche questo record sembra destinato presto a cadere, presumibilmente già quest’anno (Nole è a 18: 9 Australian Open, 1 Roland Garros, 5 Wimbledon e 3 US Open). A Re Roger resteranno molto probabilmente due altri significativi record: quello di settimane consecutive al numero 1 della stessa classifica Atp (237, dal 2 febbraio 2004 al 17 agosto 2008) e, soprattutto, quello di vittorie nel singolare di Wimbledon (8). Quanto basta ai suoi numerosissimi tifosi (nonostante Federer abbia perso tre finali su tre con Djoković in questo torneo) per continuare a celebrarlo come il più grande tennista di sempre così come quello che si svolge dal 1877 all’All England Lawn Tennis and Croquet Club è sempre il più antico e prestigioso evento di questo sport.
Resta comunque il fatto certamente non trascurabile che nessun’altro tennista ha mai avuto un impatto mediatico paragonabile a quello del campione svizzero con l’indiscutibile risultato che il tennis compete e vince oggi, in ogni parte del mondo, con altre discipline sportive un tempo considerate inarrivabili per popolarità e guadagni dei suoi protagonisti.

Un’analisi fredda e imparziale dei numeri ci racconta però come, nelle statistiche, il campione di Basilea sia dietro, per ‘peso’ dei tornei vinti e risultati nei confronti diretti, a due dei tre Big che compongono con lui il fantastico quartetto la cui rivalità sportiva ha caratterizzato la scena degli ultimi due decenni.

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Djoković, Federer e Nadal hanno vinto almeno una volta tutti i tornei del Grande Slam (Career Grand Slam). Sir Andy Murray – il primo tennista a vincere l’oro in due Olimpiadi consecutive (Londra 2012 e Rio 2016) – nel 2013 ha riportato il titolo di Wimbledon nel Regno Unito a settantasette anni dall’ultimo successo del mitico Fred Perry (8 titoli dello Slam tra il ’34 e il ’36). In totale il tennista scozzese – prima che un grave infortunio all’anca ne compromettesse pesantemente la carriera – ha vinto 3 tornei dello Slam: 2 Wimbledon e 1 US Open. Tutti e quattro hanno ‘condotto’ le rispettive squadre nazionali alla vittoria della Coppa Davis; Djoković ha anche portato la sua amata Serbia a vincere la prima edizione dell’Atp Cup (2019). Solo quest’ultimo è però riuscito anche a vincere, due o più volte, tutti i nove tornei del circuito Master 1000 (5 Indian Wells, 6 Miami, 2 Monte Carlo, 3 Madrid, 5 Roma, 4 Toronto, 2 Cincinnati, 4 Shanghai e 5 Parigi-Bercy). Nadal non si è mai imposto nelle Atp Finals: Murray 1 volta, Djoković 5, Federer 6.

Il torneo di chiusura dell’Atp Tour, informazione di servizio, da quest’anno si svolgerà al Pala Alpitour di Torino (14-21 novembre 2021).

Il testimonial ideale

L’anno scorso Roger Federer, con oltre 90Mln di dollari di ricavi da sponsorizzazioni, è stato accreditato del titolo di sportivo più pagato al mondo nonostante abbia giocato e vinto pochissimo. A prescindere dalla veridicità dei numeri ricostruiti su contratti mantenuti spesso riservatissimi, quello che è certo è che molto poco dei suoi introiti multimilionari gli è derivato dall’attività agonistica e il resto è frutto di contratti pubblicitari e partnership private.

Il segreto dell’immenso successo mediatico di Federer e dei suoi faraonici guadagni nasce certamente dal connubio vincente tra il fascino dei successi sportivi e l’eleganza e il carisma della persona. Ma anche da un’abile regia. E poi il confronto con gli altri tre dei fantastici quattro. Sfide epiche che hanno contribuito ad amplificare il mito di questo sport e dei suoi protagonisti. Storie da vivere e da raccontare negli anni (anche attraverso film o, meglio, attraverso più remunerativi docu-film).
A vincere è, comunque, quasi sempre… Nike.
Vincente come la loro mentalità che li ha portati, tra i primi, a capire che l’obiettivo primario di un’operazione di marketing sportivo non è (solo) vendere un prodotto. Quando un’azienda cerca un testimonial che la rappresenti deve selezionare qualcuno che ne condivida pienamente valori e obiettivi.

Nike si affida da tempo a pubblicità di grande impatto anche sociale
Credits Nike

Le partnership devono essere autentiche e credibili per funzionare e creare engagement. Il testimonial si deve riconoscere nell’azienda (e nel prodotto) e viceversa. Ticketing vs Purpose-driven marketing: una differenza abissale, anche nei suoi esiti finali. Quest’ultima è una strategia a lungo termine i cui risultati sono evidenti a tutti, purtroppo per loro, anche ai competitor dell’azienda statunitense. I social rappresenta in tal senso un’infallibile cartina di tornasole: se lanci una campagna incoerente o, addirittura, mendace, il consumatore prende immediatamente le distanze.

Nike does it again

Non può stupire, quindi, che Nike abbia ottenuto il titolo di marchio di abbigliamento di maggior valore al mondo, per il settimo anno consecutivo, nella classifica Brand Finance – Apparel 50, 2021.
Meno prevedibile è che l’azienda americana lo ha fatto doppiando il valore della seconda classificata, l’italiana (?) Gucci.

I dati raccolti da Brand Finance evidenziano come il valore totale dei 50 marchi di abbigliamento di maggior prestigio al mondo sia diminuito dell’8% per le conseguenze del COVID-19. Nike ha perso il 12,5% rispetto all’anno precedente attestandosi a 30,4Mld di dollari. Da notare come i marchi di calzature abbiano fatto registrare, nonostante la crisi, un aumento medio del 9%.
Da tenere d’occhio le prestazioni in controtendenza di Fila (+68,4) e Uniqlo (+1,5%).
La Fila, ora di proprietà asiatica, è ritornata nella Top Ten del tennis professionistico con l’argentino Diego Sebastián Schwartzman (9°).
Nella classifica dei marchi di abbigliamento più prestigiosi al mondo Nike si è invece classificata terza, di gran lunga prima tra quali ‘sportivi’. Rolex è il marchio di abbigliamento più forte al mondo, con un punteggio di 89,6 su 100 del Brand Strength Index (BSI), seguito da Moncler.

Jordan, Federer e…

Quando l’azienda fondata da Bill Bowerman e Phil Knight inizia la collaborazione con il giovanissimo Michel Jordan è il 1984. L’anno successivo firma anche uno dei più riusciti produce placement della storia del cinema con le scarpe auto-allaccianti di ‘Ritorno al Futuro’, e i suoi manager si attendono circa 30Mln di dollari di ricavi dalla sponsorizzazione. Il futuro Re del basket allora non ha ancora vinto nulla. Dal primo paio – vietato dalla Nba per i suoi colori sgargianti e diventando perciò di culto ancor prima di arrivare sul mercato – all’edizione 2019, i dati disponibili ci raccontano di un successo commerciale senza precedenti in questo settore. Dopo trentacinque anni e a quasi vent’anni dal definitivo ritiro (il terzo) della stella dei Chicago Bulls, il marchio che porta il suo nome ha registrato nell’ultimo anno fiscale ricavi per 3,1mld di dollari – l’8% di tutti i ricavi della Nike – con una crescita del 10% rispetto all’anno precedente (il totale delle revenue incassate dall’ex campione è così salito a 1,3Mld di dollari).

Tutti i loghi di proprietà della Nike

Federer e Jordan: due simboli di successo, due icone di stile (assai diverse tra loro), due brand globali. Nike ha anche provato a ‘unirli’ per dimostrare al mondo non solo la sua capacità di innovare ma anche e soprattutto di fare squadra. Agli Us Open del 2014 Roger Federer indossa infatti le Nike Court Zoom Vapor RF X AJ3, disegnate da Michael Jordan. Sulla linguetta l’inconfondibile silhouette ‘Jumpman’ (la celebre schiacciata di ‘His Airness’ a gambe aperte), il logo RF sul fianco, l’oramai classica stampa ‘Elephant’ e la tomaia in pelle premium.

Per capire l’influenza culturale che il brand Jordan continua ad avere, nel mondo, nelle giovanissime generazioni basta analizzare i testi di seguitissimi rapper, anche italiani. L’attenzione per questo importantissimo segmento di mercato della multinazionale USA è anche dimostrata, è notizia di questi giorni, dal lancio di ‘Nothing but Gold’ (NbG, attualmente in private beta), un’App proprietaria dedicata allo sport, allo stile e alla cura di sé creata per attrarre e fidelizzare la generazione Z.

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… il ‘fenomeno’ Nishikori

In attesa di arrivare a conoscere l’impatto di Covid-19 sull’economia globale dello sport professionistico, l’analisi dei dati disponibili per gli anni precedenti ci raccontano per il tennis, oltre alla progressione che porta Federer a essere lo sportivo più pagato al mondo, di un crescente divario tra i Top players e i giocatori di medio livello dovuto principalmente al ‘monopolio’ di vittorie nei tornei principali dei FabFour e, al contempo, a una non lineare proporzione tra vittorie conquistate e le sponsorizzazioni raccolte.

I loghi personali di Djokovich, Federer, Nadal e Murray

La classifica dei tennisti più pagati del 2020 è, come detto, dominata da Federer anche senza giocare. Ma, a ben vendere, non è questa l’unica ‘sorpresa’. Al secondo posto, come prevedibile, c’è Novak Djoković accreditato lo scorso anno di oltre 32Mln di dollari di sponsorizzazioni. Djoković, con 144Mln di dollari di premi partita in carriera, è anche il giocatore più vincente di sempre. A contendersi il terzo posto, il che è assai significativo, sono due tennisti i cui risultati sul campo di gioco sono assolutamente non paragonabili: Rafael Nadal e Kei Nishikori. I confronti diretti segnano un primato di 11 a 2 a favore dello spagnolo e l’ultimo incontro tra i due si è svolto nei quarti del Roland Garros del 2019 e si concluso con la vittoria del maiorchino con un impietoso 6-1 6-1 6-3. Rafa è accreditato di una raccolta di sponsorizzazioni inferiori ai 30Mln di dollari; Nishikori, pur non avendo vinto nessun titolo lo scorso anno (12 tornei vinti in carriera, nessun 1000 e una sola finale Slam, agli US Open del 2014, persa malamente contro Marin Čilić) ha invece superato tale soglia raggiungendo l’ambitissimo podio della classifica dei tennisti più pagati al mondo grazie alla grandissima popolarità che ha nel suo Paese di origine. In Giappone non c’è mai stato un tennista di questo livello il che ha permesso al trentunenne di Matsue di diventare molto popolare e di attrare l’attenzione di società come Asahi, NTT, JAL, Nissan. Kei è anche uno dei volti principali delle prossime Olimpiadi.

Intanto Djoković pensa a vincere ancora. “Il mio più grande obiettivo è continuare ad accumulare settimane come numero uno al mondo di questo sport. Credo che questo sia un obiettivo importante perché ti costringe a essere al tuo livello migliore per molto tempo e non solo durante un torneo”, ha dichiarato recentemente.
È uno che evidentemente al tema GOAT dà grande importanza. Perseverantia omnia trascendo.

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