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Lucano, Giffoni, Morisi e il corto circuito politica-giustizia

Le sentenze non si commentano, si applicano. Intorno a questa frase, su cui garantisti e giustizialisti da sempre si dividono, si può costruire un dibattito infinito. A partire dal dilemma se sia sempre giusto sostenere che ci si debba difendere nel processo e non dal processo. Il caso di Mimmo Lucano, ma anche quello di Michael Giffoni, gli ultimi in ordine temporale di una lunga serie, ripropongono l’eterno corto circuito che si crea fra la giustizia, l’informazione e la politica.

Sono due casi diversi che aiutano però a focalizzare un aspetto che non si deve sottovalutare: servirebbe, nelle valutazioni che seguono a una sentenza, un equilibrio che quasi sempre non c’è.

Giffoni, ambasciatore italiano in Kosovo tra il 2008 e il 2013, è stato assolto dal tribunale penale di Roma dai reati di associazione a delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Era stato accusato per la prima volta più di sette anni fa e per quelle accuse ha visto cancellata la sua carriera. Impossibile risarcirlo per quello che ha perso. Essenziale raccontarne la storia e riabilitarne la reputazione da ogni punto di vista possibile. Ma è evidente che la giustizia continuerà a produrre casi analoghi, perché la lentezza dei diversi gradi di giudizio impone tempi troppo lunghi tra le accuse iniziali e la sentenza definitiva.

Quella di Mimmo Lucano è una storia che è ancora lontana dal suo epilogo giudiziario. La sentenza di primo grado lo ha condannato a 13 anni e 2 mesi per aver speculato sulla gestione dei migranti. L’ex sindaco di Riace è stato per anni indicato come l’artefice di un modello di integrazione e di inclusione. L’inchiesta della Procura di Locri lo ha invece messo sul banco degli imputati e la sentenza di oggi ha raddoppiato la richiesta della pubblica accusa.

Fin qui, un pezzo dell’iter giudiziario che si può commentare, o meno. In questo caso, il dato che si evidenzia è però l’immediata politicizzazione della sentenza. Dall’area di centrosinistra si definisce ‘abnorme’ e ‘sproporzionata’ la decisione del tribunale. Sull’altro fronte, arriva l’affondo del leader leghista Matteo Salvini. “Guadagnava illecitamente sulla gestione degli immigrati, 13 anni di condanna al sindaco di sinistra (e candidato di sinistra alle Regionali in Calabria) Mimmo Lucano, paladino dei radical chic. Giornalisti e politici di sinistra indignati ne abbiamo? No, sono tutti impegnati a fare i guardoni in casa altrui…”.

Le parole di Salvini richiamano un altro caso, per adesso senza implicazioni giudiziarie per il protagonista, il suo ex social media manager, e stratega della comunicazione social, Luca Morisi.

Il nesso tra le due vicende, un ex sindaco che avrebbe abusato del suo potere per lucrare sull’immigrazione e un comunicatore coinvolto in vicende personali di droga e prostituzione, non tiene. Se non negli schemi e nelle logiche della propaganda.

Giffoni, Lucano, Morisi. Persone, prima di tutto, che hanno le loro responsabilità da accertare, e affrontare, o che devono ricostruire un’esistenza. Il chiacchiericcio di certa politica e l’approssimazione di certa stampa aggiungono ai problemi della giustizia un effetto megafono che può fare ulteriori danni.

Si torna al punto di partenza. In uno Stato di diritto la giustizia va rispettata, anche quando le sentenze sembrano abnormi, e non va strumentalizzata nel primo comizio di piazza utile. Lo si deve, innanzitutto, a Giffoni, a Lucano e anche a Morisi.

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