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Ai giornali servono ancora i giornalisti

Un’intervista a Virginia Stagni, business devolopment manager del Financial Times, sta facendo discutere in tante redazioni. Pubblicata sull’Huffington Post, offre una serie di spunti di riflessione. Il primo è che parla una giovanissima manager, 28 anni, che è stata capace di arrivare nel suo ruolo per le sue capacità e la sua visione. L’abbiamo scelta tra i manager under 40 di Fortune Italia proprio per questo.

Poi, fatta questa premessa doverosa, si può entrare nel merito di quello che dice. Sono concetti importanti che possono essere letti senza l’enfasi del giovanilismo e senza la foga della ‘caccia al giornalista’, tanto di moda in questa stagione illuminata.

Virginia Stagni parla da manager in un settore, quello dell’editoria, che almeno in Italia ha sofferto soprattutto della carenza di buoni manager. Semplificare la sua analisi, come stanno facendo in tanti, non vuol dire solo accodarsi al mantra “non servono più i giornalisti” ma vuol dire anche banalizzare le cose interessanti che dice. Più semplicemente, alle valutazioni di un manager dell’editoria vanno sommate quelle di chi l’editoria, fino a prova contraria, la sostiene creando i contenuti. La direttrice del Financial Times, Rouala Khalaf, conosce e condivide le idee di Virginia Stagni. Ma ne esprime anche un’altra, complementare, nelle sue scelte quotidiane: ai giornali servono ancora i giornalisti. Anzi, ai giornali servono sempre più giornalisti di qualità.

Qualunque altro direttore che faccia gli interessi della testata che dirige può leggere le parole di Stagni nello stesso modo.

“Bisogna imparare a trattare il giornale come un brand e quindi fidelizzare il lettore, convincerlo che sia proprio quello il prodotto che cerca e che gli occorre, portarlo a pagare per un pacchetto di informazione che attesti sempre un certo livello di qualità”. Non solo condivisibile ma necessario, indispensabile. Senza qualità il giornalismo è sconfitto prima ancora di aprire il confronto con la massa gigantesca e indistinta di informazioni che arrivano dalla Rete.

Poi c’è il tema del talento e della provenienza del talento. “Non è detto che un redattore di lungo corso sia preferibile ad un giovane alle prime armi, non è detto che chiunque entri debba avere lo stesso background, venire da scuola di giornalismo o simili. Noi favoriamo l’ingresso anche, e specialmente, da altri settori: in questa avventura dei media può tuffarsi il giovane che a vent’anni ha fondato la sua startup di e-commerce, così come chi si occupa di audience e di engagement”. La questione diventa più complessa, perché il confine tra la condivisibile esigenza di contaminare le redazioni con stimoli diversi e la conclusione che chiunque passi possa fare il giornalista è molto sottile.

Quella del giornalista è una professione che si costruisce con le competenze e con l’esperienza, come tutte le altre, non è solo un tesserino con la data di iscrizione all’Ordine. Una redazione senza giornalisti è semplicemente una contraddizione in termini, un paradosso. E non si tratta di difendere posizioni ma di far funzionare le redazioni e di metterle nelle condizioni di produrre la qualità di cui sopra.

Stagni usa un aggettivo utile a fare un titolo, ‘polveroso’, ma dice anche un’altra cosa, tanto giusta quanto scivolosa. “Se il giornalismo continua ad essere, come preconcetto vuole, un mondo polveroso e statico, queste giovani menti brillanti andranno a finire nelle big tech, quando invece il mondo dei media avrebbe un estremo bisogno di loro”. Si può aggiungere qualcosa al ragionamento. Con una forte redazione giornalistica, le menti brillanti strappate alle Big tech possono dare un contributo importante. Con una redazione senza giornalisti capaci, anche le menti brillanti non riusciranno a impedire che una testata giornalistica si trasformi nella brutta copia di una Big tech.

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