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Negli Stati Uniti sempre più donne spalancano le porte di un club per soli uomini. Le storie e gli investimenti, da Sara Blakely di Spanx a Whitney Wolfe Herd di Bumble e Anne Wojcicki di 23andMe. La versione completa di questo articolo a firma di Maria Aspan ed Emma Hinchliffe è disponibile sul numero di Fortune Italia di febbraio 2022.

SI ACQUISISCE UNA CERTA SICUREZZA QUANDO SI È MILIARDARI. E Sara Blakely, fondatrice di Spanx, ce l’ha. Questa mattina è nel suo ufficio di Atlanta, sdraiata su un divano rosso, bianco e nero e indossa, giustamente, un abbigliamento comodo della nuova collezione. “Mick Jagger mi ha appena chiesto di mandargli questi”, dice per rompere il ghiaccio, indicando il suo confortevole outfit. In soli due giorni, dopo 21 anni come proprietaria di Spanx, ha concluso un accordo che ha portato alla vendita della quota di maggioranza dell’azienda a Blackstone, una transazione che ha valutato il brand produttore di intimo a 1,2 mld di dollari. Questo ha spinto Blakely, già ricca grazie agli anni di gestione di un business in espansione, all’interno di un nuovo regno: “La differenza è che ora ho monetizzato il valore”, dice.

Blakely, 50 anni, ha costruito quella ricchezza da più di un miliardo di dollari in gran parte grazie ai suoi finanziatori privati, senza cofondatori che condividessero il rischio. E lo ha fatto a modo suo, prendendo decisioni commerciali per “intuizione”, operando lontano dai punti caldi dell’industria dell’abbigliamento di New York e Los Angeles, e considerando sé stessa più come creatrice che come Ceo.

Ha scritto lei stessa il brevetto originale per l’intimo modellante di Spanx, piuttosto che strapagare un avvocato: è appeso all’interno di una cornice rossa nell’atrio della società. Il suo percorso le ha portato molti vantaggi, ma è quel genere di sentieri che “ti possono lasciare sulla tua isola”, dice. Al di là della sua propensione per il bootstrapping, ciò che ha allontanato Blakely dal vasto mondo delle startup è stato il suo status di fondatrice, un raro caso di donna che crea e gestisce un’azienda delle dimensioni di Spanx. Ma almeno su questo fronte, la sua isola è diventata un po’ più affollata. L’anno scorso ha rappresentato un punto di svolta per le fondatrici.

Non solo Blakely, ma anche Whitney Wolfe Herd della app di incontri Bumble e Anne Wojcicki della startup sulla genetica 23andMe, hanno raggiunto un traguardo non comune: essere fondatrici e Ceo che, vendendo o quotando la loro azienda, hanno conquistato lo status di miliardarie. Le exit miliardarie sono state quelle più spettacolari, ma erano parte di una più ampia ondata di Ipo, Spac e vendite condotte da donne fondatrici e Ceo, tra cui Jennifer Hyman della società di moda Rent the Runway; Caryn Seidman Becker della società di screening biometrico Clear; e Heather Hasson e Trina Spear, dell’azienda produttrice di camici per medici Figs.

Nel 2021, cinque società americane venture-backed con team di sole donne fondatrici sono state quotate o sono state vendute per un valore di un miliardo o più, secondo Crunchbase. Cinque in un anno può non suonare come qualcosa di sconvolgente, ma bisogna considerare il contesto: dal 2011, solo 12 aziende fondate da donne sono riuscite a centrare quell’obiettivo. Raggiungere il miliardo di dollari è un grosso affare per queste fondatrici, ovviamente. Ma ha anche implicazioni significative per il più grande ecosistema startup e per coloro che beneficiano della massiccia ricchezza generata da un’exit.

Di queste donne che si arricchiscono grazie a questa immissione di liquidità possono far parte anche investitrici, membri del consiglio di amministrazione, e dipendenti: gruppi di persone che, in molti di questi casi, sono prevalentemente (e per il mondo delle startup, insolitamente) femminili. “È davvero fondamentale avere queste exit, perché si genera un ecosistema non solo di talento, ma anche di ricchezza”, dice Deena Shakir, partner della società di capitale di rischio Lux Capital, che ha coinvestito con Wojcicki in diverse startup. “E questo è importante anche per le aziende che nasceranno”.

Certamente, queste pietre miliari sono arrivate nel corso di un anno pieno di accordi e Ipo, i cui i guadagni sono andati a beneficio degli uomini in maniera del tutto sproporzionata. Se da una parte nell’anno le exit di donne fondatrici sono state cinque, dall’altra le società americane venture-backed con fondatori esclusivamente di sesso maschile che nel 2021 sono state vendute con un valore di un miliardo o più sono state 172, secondo Crunchbase. E nonostante l’avventuroso autofinanziamento fatto da Blakely, la maggior parte delle startup che puntano al valore del miliardo dipendono dai dollari del ventur capital, di cui solo il 2% circa è finito nelle mani delle donne fondatrici quest’anno. Questa statistica, già triste, peggiora quando si parla di donne nere e latine, che insieme ottengono meno dello 0,5% del capitale di rischio, dice Projectdiane.

Quindi qualche altra grossa Ipo non sarà la soluzione a un sistema incredibilmente iniquo. “Siamo ancora all’inizio di questi fondamentali cambiamenti”, dice Pam Kostka, l’ex Ceo di All Raise, organizzazione no-profit della Silicon Valley che si occupa di fondatrici e venture capitalist donne. “Ma vediamo i semi che vengono piantati e questo ci rende ottimisti”.

La versione completa di questo articolo è disponibile sul numero di Fortune Italia di febbraio 2022. Ci si può abbonare al magazine di Fortune Italia a questo link: potrete scegliere tra la versione cartacea, quella digitale oppure entrambe. Qui invece si possono acquistare i singoli numeri della rivista in versione digitale.

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