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Ue tra regole e economia, ma un Recovery 2 ora è improbabile

Bce

Come conciliare il bisogno di fornire un sostegno temporaneo all’economia con il rispetto delle rigide regole Ue sugli aiuti di Stato e sulla tenuta dei conti pubblici?

Esattamente due anni fa, in un’Europa piegata dalla crisi economico-sanitaria generata dalla pandemia, la soluzione si chiamò Recovery fund: 750 miliardi di fondi destinati a un programma innovativo per la ripresa (il Next generation Eu) ripartiti tra i diversi paesi membri, e finanziato tramite imponenti emissioni di obbligazioni dell’Unione europea sui mercati finanziari. Questa ‘potenza di fuoco’, come la definirono gli addetti ai lavori, era e sarebbe dovuta restare una risposta eccezionale e temporanea anche perché, in buona sostanza, rappresentava il primo passo concreto verso un bilancio comunitario dell’Ue. Qualcosa che ovviamente non poteva accordarsi con le regole della concorrenza in materia di aiuti di stato che, infatti, furono allentate dalla Commissione europea nel marzo del 2020 con il cosiddetto temporary framework, un nuovo quadro normativo giustificabile, stando ai Trattati, in situazioni di “grave turbamento all’economia”. Situazioni tali da permettere ai Paesi membri di aiutare direttamente ampi settori delle loro economie che stavano soffrendo per via dei lockdown.

Ma oggi, in un momento in cui la ripresa post-pandemica sembra già destinata ad arrestarsi sulla scia della guerra in Ucraina, ci sono ancora le condizioni per crescere in modo sostenibile garantendo il rispetto delle regole? Il tema è continuamente oggetto di dibattito, in Europa e in Italia. La domanda è anche rimbalzata, a Strasburgo, dove si è tenuta la penultima plenaria della Conferenza sul futuro dell’Europa (CoFoE). Nel dibattito tra cittadini e istituzioni comunitarie sulla costruzione dell’Europa di domani, richieste come quella di dotare l’Ue di una difesa comune e di strumenti efficaci per rispondere agli shock economici hanno rapidamente guadagnato posizioni nella classifica delle priorità. E non avrebbe potuto essere diversamente. Non a caso il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova, ha tenuto a ribadire che nella CoFoE, il governo “ha sempre tenuto una posizione di apertura sulla modifica dei trattati europei”, insistendo sul bisogno di “valutazioni pragmatiche” che superino “veti e tabù”, quando in gioco c’è l’urgenza di rispondere a un’altra crisi potenzialmente devastante come quella che si sta profilando dopo l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio.

Al di là dei pressing della nostra politica, fonti diplomatiche italiane, rispondono con molta cautela alla domanda se i tempi siano maturi per adottare un Recovery 2: “Al momento un nuovo accordo per finanziare altro debito europeo sui mercati, come avvenne due anni fa, non è impossibile ma è senz’altro complesso”. Gli scenari più realistici nel breve periodo sono, insomma, altri. “Nelle proposte della Commissione ci sarà qualcosa che garantisca nuove risorse finanziarie per ammortizzare gli effetti della crisi”. Ma un’altra “potenza di fuoco” di entità comparabile a quella dispiegata per rispondere alla crisi pandemica “non è sul tavolo” anche perché – ci rammentano le fonti – “molto dipenderà dagli scenari economici e dall’impatto reale della guerra in Ucraina sulle nostre economie, impatto che finora è stato inferiore a quello, devastante, che è stato provocato dai prolungati lockdown”.

Per rendere energeticamente autonomo il vecchio continente, aiutare famiglie e imprese a pagare le bollette e finanziare la nascita di una Difesa comune apprezzabile, in realtà, Bruxelles è intenzionata a percorrere altre strade. Non tutti i Paesi membri, infatti, hanno raggiunto i massimali di fondi che Bruxelles può erogare e sarebbero ancora in tempo per richiedere i prestiti a titolo della Recovery and Resiliance Facility, il primo Recovery tanto per intenderci, tanto più che la Commissione ha già deciso di prorogare il suo temporary framework per tutto il 2022. A fronte della nuova emergenza, poi, potrebbero essere aumentati i massimali degli aiuti consentiti oppure essere introdotte nuove misure di sostegno alla ripresa (ma sempre fondate sul medesimo quadro giuridico). Scenari che permetterebbero anche all’Italia – la sola ad aver richiesto con il suo Pnrr prestiti e trasferimenti a fondo perduto che coprono tutta la sua dotazione finanziaria disponibile con il Recovery (RFF) raggiungendo il massimale previsto del 6,8% del nostro Pil – di domandare altri aiuti.

A casa nostra il dibattito sul bisogno o meno di un Recovery 2 s’incrocia, non sempre facendo i debiti distinguo, con un altro tema caldo: la modifica del Patto di stabilità e crescita che è stato sospeso in piena pandemia grazie all’applicazione di una general escape clause possibile, anche in caso, solo in situazioni di emergenza straordinaria. Il negoziato sulla modifica degli stringenti “paletti” disegnati a Maastricht per controllare l’inflazione e il debito nell’Eurozona è attualmente in corso, e l’economista Rainer Masera, già banchiere e ministro al bilancio, non ha dubbio alcuno sul bisogno di costruire nuove regole e nuovi equilibri nell’Ue. Alla luce delle nuove tensioni geopolitiche “un ritorno al 3% (ndr. come tetto massimo per l’inflazione) e al 60% (ndr. come rapporto massimo tra debito e Pil di un paese dell’eurozona) è semplicemente impossibile”, ha affermato durante un convegno di Banca d’Italia e della Fondazione Ducci facendo presente che l’Italia, in attesa della riforma delle regole del patto, è comunque chiamata a una gestione del debito pubblico e della spesa “rigorosa”. “Questo è fondamentale”, ha sottolineato, perché “sta in noi creare le premesse perché non avvengano episodi che rimettano in discussione tutta la costruzione europea”.

Se la pandemia, due anni fa, è riuscita a far accettare all’Europa (benché solo temporaneamente) il superamento del rigido modello di equilibrio imposto dalla Bundesbank e fondato sul controllo dei conti pubblici, oggi la guerra in Ucraina impone – secondo molti altri economisti, italiani e non – di riconsiderare quel modello e metterlo definitivamente in discussione, tanto più che fu adottato in tempi decisamente diversi da quelli che stiamo vivendo. E’ di questo avviso anche Domenico Lombardi, già economista al Fmi e oggi presidente dell’Oxford Institute for Economic Policy. “La crisi russo-ucraina – sostiene – sta erodendo le aspettative di crescita faticosamente generate nell’ultimo anno di pandemia e l’Italia si trova in una situazione particolarmente fragile rispetto ad altre economie europee poiché la sua economia non aveva ancora recuperato i livelli di reddito pro-capite pre-crisi finanziaria del 2008-09, quando ha dovuto affrontare i pesanti effetti della pandemia”.

In questo contesto anche a suo avviso “la reintroduzione del Patto di Stabilità (ndr. così come era) è semplicemente impraticabile dal momento che amplificherebbe l’impatto recessivo della guerra e della crisi energetica in economie già segnate dall’effetto della pandemia”. Il negoziato in corso sulla revisione del Patto insomma non potrà non tener conto del contesto attuale che vede, tra l’altro, un’inflazione già a due cifre paesi come la Spagna, mentre nelle altre grandi economie europee – Italia, Francia e Germania – i livelli d’inflazione hanno di gran lunga superato il 6%, il doppio del limite previsto nel Patto di Stabilità. “Nella sua versione attuale – sottolinea ancora Lombardi – il Patto è centrato su parametri inarrivabili che ne compromettono sia la credibilità che le finalità”. Una realtà oramai assodata anche a Bruxelles, dove Gentiloni ha già chiarito che il ritorno a quel Patto di Stabilità oggi è semplicemente “irrealistico”.

Il punto quindi non è tanto la necessità di modificare il Patto, su cui oggi non discute piu’ nessuno, ma – lasciano intendere alla farnesina – “capire che direzione prenderà il negoziato”. Per esempio, aggiunge Lombardi, “dovrebbe essere chiarito come valutare i massicci investimenti previsti dal Next generation Eu, quelli legati all’ampliamento delle spese per la difesa e, non ultimi, gli investimenti per fronteggiare la crisi energetica in atto”. Il punto cruciale del negoziato resta quindi quello che tanti autorevoli economisti e banchieri (Draghi incluso) hanno brillantemente sintetizzato a più riprese: la necessità di distinguere nell’Ue tra debito buono, che finanzia spese produttive, e debito “cattivo”, che finanzia sprechi.

L’ipotesi ora più forte della conferma di una Francia guidata da Macron e di una presidenza dell’Ue anti-sovranista, insieme alla recente apertura del governo olandese sulla proroga della sospensione del Patto per tutto il 2023 forniscono, intanto, importanti indicazioni: forse ci stiamo veramente dirigendo verso un nuova politica economica comune fondata su un nuovo consenso europeo improntato su una maggiore flessibilità delle regole.

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