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Oceani inquinati, se l’isola di plastica diventa carburante

Negli anni ’70 e ’80 gli scienziati hanno iniziato a lanciare un allarme relativo a gigantesche isole costituite da rifiuti di plastica galleggianti che si raccolgono nei corsi d’acqua del mondo.

Poiché la quantità di plastica che scarichiamo in mare si è moltiplicata nei decenni successivi, questi vortici di spazzatura (vaste isole di spazzolini, minuscoli ‘nurdles’ di plastica, reti da pesca , pezzi di polistirolo e simili) sono cresciuti nel disinteresse generale. L’Alaska ora impallidisce di fronte alle dimensioni raggiunte da un’isola costituita da 87,000 tonnellate di plastica nel Pacifico settentrionale.

È un’enorme minaccia per la vita marina, l’economia globale basata sul mare, e l’atmosfera. In un rapporto pubblicato alla vigilia del vertice sul clima Cop-26 dello scorso autunno, l’Environment Programme delle Nazioni Unite ha lanciato un monito: se non verranno prese misure, il volume dei rifiuti oceanici triplicherà di dimensioni entro il 2040, infliggendo danni per un valore di 100 mld di dollari alle imprese e ai consumatori.

Finora, le iniziative lanciate per raccogliere una parte di questi rifiuti si sono rivelate poco efficaci. Una delle missioni di maggiore successo è stata svolta dall’Ocean Voyages Institute. Nel 2020, grazie alle sue navi, è stato infatti capace di raccogliere 103 tonnellate di detriti marini dopo 48 giorni in mare. Apparentemente 103 tonnellate potrebbero sembrare una grande quantità ma, a un tale ritmo, ci vorrebbero più di 50 anni per eliminare le vaste masse di detriti galleggianti, dicono gli esperti.

Ora, tuttavia, una nuova impresa afferma di aver trovato un modo per colmare la discrepanza tra le dimensioni colossali dell’isola di rifiuti e gli sforzi sottodimensionati che provano ad affrontare il problema.

Capacità di resistenza

La sfida per un’efficace pulizia degli oceani è “rimanere in mare aperto”, afferma Gianni Valenti, presidente di Gaia First, una Ong di protezione ambientale con sede a Parigi. Valenti e la sua Ong stanno lavorando con Breeze Ship Design – un costruttore navale norvegese – e con Rina – azienda italiana specializzata in certificazione navale e ingegneria – per sviluppare una nave che può rimanere in mare perennemente, lavorando ventiquattro ore su ventiquattro per raccogliere la spazzatura e farne buon uso.

Non si tratta di un gigantesco contenitore di rifiuti. Stiamo parlando di una barca che avrebbe la capacità di raccogliere e poi convertire la spazzatura dell’oceano in un combustibile rinnovabile – sotto forma di idrogeno verde o ammoniaca verde. Nel progetto attuale, la nave avrebbe tutta la tecnologia a bordo per trattare i rifiuti, trasformarli in gas e conservarli in sicurezza. Tutto ciò mentre si trova in mare. I processi automatizzati a bordo e i sensori sofisticati ordinerebbero la plastica e preparerebbero la gassificazione e l’eventuale stoccaggio. In linea con i principi del’economia circolare, la barca sarebbe alimentata dal carburante verde che produce a bordo.

“Attraverso questo progetto elimineremo 25 tonnellate di plastica ogni giorno” ha calcolato Valenti.

La grande cattura

Le tecnologie fondamentali per il progetto – trattamento dei rifiuti, conversione da plastica a combustibile, gassificazione e stoccaggio – funzionano bene su terra ferma, ma non è ben chiaro come questi processi industriali possano funzionare in alto mare. La maggior parte della tecnologia dovrà essere adattata da quella esistente per la terraferma.

Questa difficile sfida è stata ciò che ha attratto Rina. “È un’idea straordinaria”, ha detto a Fortune Guido Chiappa, vicepresidente esecutivo dell’azienda, presso la struttura R&D del gruppo fuori Roma. “Ma per mettere in pratica il progetto, devi superare alcune barriere”.

Funzionerà in condizioni estreme? “Su una barca, in mare aperto, ci sono vento e onde. È un ambiente molto aggressivo. Il livello di complessità per gestire un processo di questo tipo”, ha continuato, “non è lo stesso che si troverebbe a terra.”

Gli ingegneri Rina stanno costruendo modelli di simulazione al computer per determinare la fattibilità. Il suo verdetto? Esiste la tecnologia per avere successo. “Dobbiamo solo costruire l’ecosistema”, dice.

E il costo di quell’ecosistema? Gaia First è in una fase avanzata di raccolta fondi, in quanto cerca 750,000 euro di capitale per lanciare il progetto. Valenti crede che Gaia First sbloccherà gli investimenti necessari nei prossimi mesi e darà il via libera per il viaggio inaugurale nel 2024.

L’industria delle navi da crociera

Chiappa vede il progetto di Gaia First come un’occasione per affrontare una serie di questioni del mondo marittimo: non solo proteggere le vie d’acqua dal degrado ambientale, ma lo sviluppo di un sistema di gestione dei rifiuti a bordo direttamente in alto mare.

Le industrie di navigazione e crociera sono da tempo alla ricerca di modi per affrontare il problema rifiuti che producono a bordo. Le autorità locali e gli ambientalisti – in particolare, Friends of the Earth e la sua crociata contro l’inquinamento delle navi da crociera – chiedono di agire. Nel 2019, l’operatore di navi da crociera Carnival Corp. ha ammesso di aver scaricato rifiuti di plastica nell’oceano e ha accettato di pagare una sanzione di 20 mln di dollari (in aggiunta alle precedenti multe per gli stessi reati che sono arrivate a 40 mln).

Chiappa e Valenti credono che questi tipi di incidenti continueranno a meno che le barche stesse non siano equipaggiate per trattare i rifiuti in mare, e alla fine smetteranno di contribuire alle isole di spazzatura in continua espansione. Vedono la tecnologia che Gaia First sta sviluppando come un primo passo importante per affrontare questo problema.

“Pensiamo che sia necessario un nuovo sistema nell’oceano per essere in grado di trattare la plastica e ridurre l’impatto dell’inquinamento”, ha dichiarato Chiappa.

“Nel frattempo”, continua, “se è possibile utilizzare i rifiuti di plastica per recuperarli come fonte di energia, avremmo la possibilità di azionare un processo pienamente sostenibile. Sarebbe qualcosa di veramente utile. E completamente nuovo. Ed è per questo che abbiamo detto sì al progetto”.

L’articolo originale di Bernhard Warner è su Fortune.com

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