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Friend-shoring, la globalizzazione si rinnova

export imprese

La crisi ucraina. La guerra economico-finanziaria contro la Russia da parte degli Usa e alleati Nato. Le crescenti tensioni tra Usa e Cina. Il disallineamento dell’India dall’asse occidentale. La crescente espansione dell’influenza cinese in Africa, Centro Asia e Medio Oriente. Tutti questi eventi spingono a domandarsi se la globalizzazione, come l’abbiamo vissuta negli ultimi 30-40 anni, non sia giunta a una fase di “rebranding”. Di recente Janet Yellen ha menzionato il concetto di friend-shoring: una sorta di rilocazione di aziende occidentali che dovrebbero riposizionare i loro impianti produttivi, specie se legati a filiere strategiche, in Paesi amici dell’America. Gli aspetti legali, istituzionali e burocratici di questa rilocalizzazione sono un fattore rilevante nella pianificazione di un manager o un imprenditore. Cerchiamo di fare il punto.

Near-shoring e Friend-shoring

“Oggi il mondo è divenuto più instabile e i mercati sono meno aperti di quanto c’eravamo abituati nell’ultimo trentennio”, attacca Alessandro Minon, Presidente di Finest, finanziaria per l’internazionalizzazione del Nordest italiano. “Il near-shoring non è altro che la risposta adattiva delle imprese, che non possono certo perdere le quote di mercato estero guadagnate, ma allo stesso tempo hanno la necessità di governare la propria catena del valore, che sarà perciò più corta, sicura e flessibile. I noti problemi legati alla logistica, ai trasporti, al caro delle materie prime e alle difficoltà di approvvigionamento hanno dato una spinta riorganizzativa in questa direzione”.

Secondo il Centro Studi Confindustria, negli ultimi 20 anni le aziende europee che hanno rilocalizzato in patria sono circa 850, con Italia e Francia a fare da capofila. La maggior parte di queste produceva in Asia, circa il 42%. Questo processo è stato accelerato dalla pandemia Covid 19, che ha evidenziato la necessità di ricollocare la produzione di beni ritenuti “strategici”, come per esempio strumenti medicali ed altri beni ad alto contenuto tecnologico.

Arriviamo al concetto di ‘friend-shoring’, da alcuni considerato una sorta di ‘globalizzazione 2.0’, magari in formato ristretto. Spiega Minon che “il concetto di friend-shoring aggiunge una componente valoriale alla rilocalizzazione in atto, che tiene in particolare evidenza le condizioni geopolitiche e geo-economiche in cui l’impresa di muove: vengono così scelti paesi di investimento che abbiano principi e valori vicini e condivisibili, diritti riconosciuti e un clima generale di sostenibilità, sia ambientale che sociale. Col friendshoring si ambisce a costruire catene del valore sicure e prive di rischi anche reputazionali, dove interruzioni improvvise o cambiamenti delle condizioni sono altamente improbabili”.

A differenza dei precedenti “shoring”, ha una connotazione prima di tutto geopolitica, con una visione di “aree di potere” che sono in antitesi con il primato di ubiquità della geopolitica che abbiamo conosciuto sino a oggi. A spiegare bene come il friendshoring, diversamente dal comune reshoring (che non esprime concetti di merito, ma semplicemente di vicinanza strategica) ci pensa anche Ignazio Visco.

In un recente discorso, il governatore della Banca d’Italia ha spiegato che la riorganizzazione del commercio mondiale in aree costituite da paesi politicamente affini, o uniti da accordi economici regionali, rischia di mettere in crisi un modello economico che, negli ultimi trent’anni, ha permesso di elevare dalla povertà assoluta numerosi Paesi.

“Il tema della rilocalizzazione di siti produttivi geograficamente più vicini agli Hub di distribuzione, o alle sedi centrali di un’azienda, non è nato con la crisi in Ucraina, né con l’assedio economico alla Russia”, spiega Stefano Sutti, senior partner dello Studio Legale Sutti. “Negli ultimi anni il costo del lavoro in Cina è andato aumentando, un fenomeno che, seppur non avvicinandosi al costo del lavoro complessivo europeo, o italiano, ha spinto molte grandi imprese, specialmente multinazionali, a rivalutare l’opportunità di avere aree di produzione nella terra del dragone”.

“Leggendo i piani quinquennali della Cina balza agli occhi come esista, persino al suo interno, una tendenza a rilocalizzare le produzioni, a minor valore aggiunto, verso l’interno del paese, dove pur se le infrastrutture risultano meno avanzate, il costo del lavoro resta ancora basso, se paragonato alle aree costiere ipersviluppate. Trattative e studi di fattibilità, a cui partecipiamo, vedono produzioni cinesi candidate per essere rilocalizzate in Africa, che rappresenta anche un mercato con potenziali di crescita importanti. In questo modo la Cina stessa, creando hub, filiere e joint-ventures manufatturieri in Africa, basti pensare al blocco logistico-produttivo Etiopia-Gibuti, la Cina può permettersi di controllare centri produttivi limitrofi alla distribuzione in un’area, l’Africa stessa, che considera strategica per lo sviluppo della commercializzazione di ciò che resta made in China”, puntualizza Sutti.

Friend-shoring europeo e opportunità per l’Italia

Il concetto di reshoring (con le varie sfumature geografiche o geopolitiche) è comunque un evento che sta avvenendo.

Gli ultimi 3 anni tra Covid, guerra commerciale Usa vs Cina e crisi ucraina hanno accelerato questo processo. Consideriamo l’evento rilocalizzazione produttiva nel territorio dell’Unione Europea, e cosa questo implica per le aziende italiane.

“La costruzione e il rafforzamento di catene del valore comunitarie, collocando ad esempio in Est Europa quelle produzioni che erano state sviluppate in Far East, dovrebbe essere una scelta strategica da perseguire con convinzione: si creerebbero così poli produttivi e distretti sovranazionali sostenibili, sicuri e ad alto contenuto tecnologico, permettendo agli stati membri di competere sui mercati internazionali coi i colossi americani o asiatici” chiarisce Minon. “In questo clima, sarebbe auspicabile assistere alla creazione di campioni europei, mediante la condivisione di know-how, ricerca e sviluppo e innovazione.”

Sul tema di “campioni europei” insiste anche Sutti, dal punto di vista legale. “La creazione di campioni europei, che possano operare in differenti Stati della UE, con siti produttivi o almeno centri di ricerca, direzione e coordinamento, implica un passaggio obbligato sul tema M&A. Il tema è vitale ed ha accezioni sia legali che di leadership. Concentriamoci sul primo aspetto che è di supporto al secondo. Differenti aziende in differenti paesi hanno, giusto per semplificare, un percorso sociale e legale differente. Per quanto la normativa europea sia l’ultima fonte di riferimento per sempre più aspetti, ogni Stato dell’Unione ha leggi, norme, regolamenti ed usi nazionali che, seppur allineate con il diritto UE, e parzialmente uniformate, presentano specificità che rendono il dialogo e una eventuale operazione M&A più sfidante di un deal puramente interno. Non mi riferisco alle tradizionali, interiorizzate in differenze tra common law e tradizione romanistiche, ma a normative specifiche nazionali, anche tra paesi della stessa sfera. In questo senso la creazione di campioni europei implica una due-diligence anche tra sistemi, in modo da comprendere quale tra essi possa risultare più favorevole, in rapporto agli obbiettivi perseguiti. In scia a questo concetto si pone anche il problema della leadership e di come la stessa s’incarni concretamente in una corporate governance. Non è escluso che l’azienda, che s’impegna in un’acquisizione strategica, possa decidere soluzioni di riposizionamento, anche in rapporto alle opportunità, specificità o difficoltà locali, proprio in queste occasioni”.

Bene la Ue ma non dimentichiamo i vicini di casa

Le repubbliche ex Sovietiche, aderendo all’Ue, hanno portato in dote molti lavoratori con formazione medio alta: ingegneri, architetti, manager di varia natura. In parallelo, tuttavia, han portato anche una forza lavoro più eterogenea, che ha permesso la creazione di aggiuntivi margini per i siti produttivi di aziende dell’Europa occidentale. Uno scenario che, tuttavia, sta lentamente mutando come mi spiega Minon. “Oggi i mercati dell’est europeo sono molto cambiati rispetto ai primi anni 2000. Hanno tassi di disoccupazione molto bassi, manodopera sempre meno reperibile e a costi sempre più alti”. Guardando ad altre opportunità vicine, si evidenzia il ruolo assunto negli anni dai Balcani, soprattutto per le imprese del Nordest italiano.

“I Balcani Occidentali in particolare presentano interessanti opportunità d’investimento grazie alla presenza manodopera qualificata a costi competitivi. Alcuni Paesi della Regione Balcanica sono inoltre di prossima integrazione europea e l’attuale contesto geopolitico contribuisce a dare nuovo slancio ai processi di adesione, necessari anche per pacificare e stabilizzare l’intera area”, conferma Minon. La ricerca del Vienna Institute for International Economic Studies del Wiener Institut fur Internationale Wirtschaftsvergleiche, basata su sondaggi effettuati coinvolgendo investitori tedeschi, mette in luce la buona presenza di lavoratori qualificati in area balcanica.

Near-shoring: bello, ma occhio alle regole

Che il friend shoring possa offrire dei vantaggi a nazioni limitrofe all’Italia è un dato di fatto. Nello specifico l’area balcanica appare essere una sorta di “area di influenza culturale italiana”, un aspetto da non sottovalutare. Resta il fatto che ogni nazione ha le sue regole e se parliamo di territori extra Ue, pur se limitrofi, è importante tener presente le regole del gioco locale. “Finché si opera all’interno del mercato unico europeo, le imprese hanno la garanzia di un contesto che rispetta i principi cardine dell’Unione Europea e dove si applica il diritto comunitario. Tra le sfide troviamo soprattutto diversi regimi sindacali, alcuni più rigidi di altri e processi burocratici talvolta complicati che richiedono la consulenza di studi legali operativi sul mercato di interesse”, conclude Minon.

Se i regimi sindacali appaiono essere una sfida, non meno rilevante sono gli aspetti legali, specialmente il segmento delle normative societarie. “Le nazioni fuori della UE, pur se condividono con noi l’appartenenza a una stessa collocazione geografica e alcun tradizioni storiche comuni, hanno per decenni sviluppato impianti e culture normativi che devono essere presi attentamente in considerazione, quando si decide di fare near reshoring in quelle aree”, chiarisce Sutti.

“Il quadro legale dell’area dei Balcani sta attraversando alcune fasi di assestamento nell’ambito di diritto societario. Certo, l’influenza del sistema Ue o degli Stati Ue più vicini si fa sentire, ma sino ad un certo punto. Per esempio, il tema del diritto sindacale e delle relazioni industriali nel bene e nel male resta profondamente diverso, così come tutto quello che riguarda le transazioni in materia immobiliare o il diritto ambientale. Il fatto che i propri consulenti conoscano bene il paese coinvolto, e idealmente siano direttamente presenti in luogo e contino nelle proprie risorse umane professionisti locali, resta altamente consigliabile” conclude Sutti.

Muovere le catene del valore in poco tempo non è fattibile. Ogni azienda deve svolgere i suoi studi per poter riorganizzare le sue catene di valore. L’est Europa, e l’area balcanica, sono delle opportunità che le aziende europee, e italiane in testa, possono valorizzare.

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