NEL NOSTRO PAESE sono ancora pochi gli studi legali che offrono prevalentemente la loro consulenza professionale a soggetti pubblici e privati al fine di sostenere in termini giuridici le loro attività di rappresentanza di interessi di parte. Se all’estero la figura del lobbista coincide spesso con quella dell’avvocato, in Italia i professionisti che offrono apertamente questo tipo di servizi, con dipartimenti specializzati, sono delle 0 eccezioni. Da noi gli studi legali si limitano ancora a un’assistenza ‘esterna’ di appoggio alle agenzie di lobbying cui forniscono, quando ritenuto necessario, un parere specialistico sugli esiti del monitoraggio legislativo.
Se guardiamo alle organizzazioni nelle prime posizioni della classifica delle società di lobbying (pag. 94), queste sembrano presentare una certa eterogeneità tra loro.
Ma come sta cambiando questo settore? Ne parliamo con Rosanna Sovani, Partner di LS CUBE.
Esistono diversi modi di fare lobbying?
Secondo noi di LS CUBE, senz’altro sì. Del resto tutto è in movimento, si aggiorna, si adatta alle mutate esigenze. L’advocacy e il lobbying non fanno eccezione. Da sempre l’evoluzione dell’attività di lobby in Italia è stata stimolata dai cambiamenti politico-istituzionali, con un approccio per molto tempo adattivo-reattivo, volto a rispondere al cambiamento del contesto di riferimento, intervenendo solo successivamente su quello decisionale.
Con questo approccio, al modello di lobby basato per molti anni per lo più su relazioni dirette con i decisori e su una strutturata attività di analisi di contesto attraverso servizi di monitoraggio parlamentare, si è nel tempo accompagnata una integrazione di strategie di comunicazione, sia nella gestione della reputational crisis, che per strutturare campagne mirate a influenzare l’opinione dei decisori.
Questa trasformazione ha consentito una ibridazione tra le attività di lobbying e le tecniche di media relation (media affairs).
Inoltre, ai crescenti livelli di complessità normativa nella regolamentazione dei mercati e della macchina pubblica, le società di lobbying hanno spesso risposto integrando nelle loro attività core di lobbying e di media affairs delle competenze giuridiche di supporto.
La nostra visione parte dal presupposto che, accanto al modello adattivo-reattivo, se ne possa accompagnare uno nuovo. Negli ultimi anni la società è cambiata profondamente, anche a causa dell’avanzamento tecnologico, che il sistema faticosamente rincorre; per comprenderlo e regolamentarlo, sono richieste competenze sempre più specialistiche.
In questo scenario, il modello che proponiamo è di tipo recettivo-proattivo: anticipa i cambiamenti intercettando i trend, le potenziali criticità e opportunità e quindi i bisogni di trasformazione del sistema, in funzione dello sviluppo economico e sociale. Nel modello proposto, le competenze del consulente diventano sempre più specialistiche.
Il consulente è un esperto strategico con profonde conoscenze di settore, e ricopre un ruolo più attivo nel processo di comprensione del contesto e di definizione di proposte di policy che tengano conto degli interessi di tutti gli attori in campo, lavorando in rappresentanza dell’interesse comune.
Quindi oggi secondo voi è più difficile immaginare un unico modello di lobbying adeguato per diversi settori industriali? In che cosa consiste questa specializzazione di cui ha parlato?
Specializzazione, innovazione e creatività sono i pilastri fondamentali del modello di lobbying che proponiamo.
È necessaria una forte conoscenza dei meccanismi di uno specifico settore industriale, in particolare di quelli più regolamentati e nei quali l’avazamento tecnologico è dirompente. Pensiamo alle Life Sciences: l’innovazione le sta trasformando profondamente, a fronte di un ecosistema che invece stenta a svilupparsi e richiede la messa a punto di normative e regolamenti a livello europeo e nazionale, così come di nuovi modelli organizzativi e di governance. Il lobbista può giocare un ruolo strategico, acquisendo una maggiore consapevolezza e nuove competenze, a condizione che abbia una considerevole esperienza nel settore e quella sensibilità che deriva da forti competenze in ambito regolamentare e di compliance. Fare lobbying ‘di settore’ significa anticipare delle soluzioni che possano davvero portare un valore aggiunto a tutte le parti in gioco. Comunicare con le istituzioni, relazionarsi attraverso proposte di soluzioni concrete a criticità specifiche, è sempre più strategico per numerosi settori.
Come si arriva a questo risultato?
È indispensabile una profonda conoscenza del settore industriale di riferimento, dell’assetto regolatorio e normativo, per poter creare valore aggiunto ed essere percepiti come partner: è l’approccio del ‘policy enabler’. Un abilitatore di strumenti tecnici intorno ai quali costruire una coalizione di interessi diversi, non solo per rappresentare posizioni convergenti, ma per promuovere soluzioni win-win di supporto ai cambiamenti di sistema. Questa è sicuramente una forma più sofisticata di lobbismo, che si fa promotrice di idee e proposte di riforma su cui costruire la relazione tra il portatore di interessi particolari e il decisore pubblico, in un rapporto virtuoso e di reciproco riconoscimento dei ruoli, non più ‘orientando’, ma ‘suggerendo’ e ‘anticipando’ le richieste delle istituzioni e dello stesso mercato. Tutto ciò nel rispetto dei principi della trasparenza e dei reciproci ruoli. È così che immaginiamo il profilo di chi oggi è chiamato a facilitare le relazioni istituzionali, ossia in grado di fornire strumenti abilitanti per la costruzione di vere e proprie partnership tra il pubblico e il privato, favorendo comportamenti di mutual endorsement e affidabilità per costruire il dialogo e la collaborazione tra società e istituzioni in una visione di lungo termine. Ecco, allora, che le competenze tecniche altamente specialistiche (non solo in ambito giuridico), diventano perno centrale di questo nuovo modello, accompagnate da una capacità di comprensione profonda dei meccanismi istituzionali e dello specifico settore industriale. Una visione che suggerisce di interpretare la lobby anche come attività che può e deve contribuire a migliorare la qualità delle decisioni organizzative, anticipando le criticità per accelerare i tempi di risposta. E favorendo la costituzione di un ecosistema più attrattivo per tutti le parti in gioco.