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Atlante geopolitico, Taiwan: gioco a tre con Usa e Cina

È il 2 agosto 2022. La Speaker della camera USA Nancy Pelosi è appena atterrata a Taiwan e la risposta del governo cinese non si fa attendere. Un messaggio chiaro e tondo. Dalle coste della Cina vengono lanciati per la prima volta in direzione dell’Isola di Formosa dei missili. Non solo, il Dragone mette in scena un finto blocco commerciale: sospende le importazioni di oltre 2000 prodotti alimentari taiwanesi che rappresentano tuttavia solo il 2% del commercio totale con il gigante asiatico. È evidente che questa sia solo una mossa simbolica che, tuttavia, ha un preciso scopo: punire la provincia ribelle per aver affermato la sua sovranità e far capire al mondo, in particolare agli USA, che esistono delle linee rosse e che queste non devono essere oltrepassate. La politica dello status quo prevede infatti che super-potenze come gli USA non possano formalmente intrattenere rapporti diplomatici con Taipei. Bisogna stare attenti a “giocare” con il Dragone perché è pronto a fare fuoco.

Nancy Pelosi
Nancy Pelosi. Ex speaker della Camera degli Usa

Nonostante il blocco fittizio dell’agosto 2022, l’import di prodotti ad alta tecnologia da cui la Cina è fortemente dipendente, almeno per il momento, per alimentare le sue fabbriche, non viene alterato. Taiwan detiene infatti il monopolio mondiale delle risorse attualmente più importanti in circolazione, il vero e proprio oro nero contemporaneo: i semiconduttori necessari nella fabbricazione dei micro-chip o circuiti elettronici miniaturizzati. Tutto, dalle nostre macchine ai dispositivi digitali, dai telefoni fino alle armi di precisione funzionano grazie ai micro-chip. Senza di loro la transizione digitale sarebbe solo una effimera chimera. E Taiwan ne produce il 60% a livello mondiale e ben il 90% di quelli più avanzati. La sua maggiore azienda, TSMC, rifornisce tutte le più grandi tech companies del pianeta, e un blocco totale della produzione di microprocessori conseguente ad un possibile conflitto con la Cina costerebbe all’economia mondiale ben 2 trilioni di dollari stimati. 

La guerra tecnologico-commerciale in corso tra Cina e USA rischia di esacerbare una situazione già fortemente precaria. Sulla pelle di chi? Ma del mondo intero naturalmente. Perché? Per un motivo molto intuibile. Con un blocco della produzione dei micro-chip taiwanesi conseguente ad un’eventuale invasione anfibia cinese, gli USA, che da sempre sostengono la difesa incrollabile dello status quo di Taipei, entrerebbero in conflitto con la Cina, stando alle dichiarazioni statunitensi. Questo farebbe saltare da un momento all’altro tutta la catena del valore globale elettronica, provocando costi di produzione alle stelle, scarsità di prodotti, un’inflazione generalizzata e, più in generale, un blocco totale della cosiddetta twin transition: digitale ed ecologica. 

Tutto questo per un motivo molto semplice: la triangolare interdipendenza critica tra Taiwan, Cina e USA. Per capirne l’essenza, però, bisogna prendere ad esempio uno dei dispositivi di consumo di maggiore successo nella storia, l’IPhone. Con i sui più di 1000 componenti prodotti tra Cina, Taiwan e USA esemplifica al meglio quanto stretti siano i legami industriali e commerciali tra i tre attori sopra-menzionati. Molto sinteticamente, la catena di produzione funziona così: i Chips vengono disegnati e sviluppati negli USA; le componenti più importanti (processori, Wi-Fi Chips, lenti per le telecamere) vengono poi prodotte a Taiwan (il 36% di tutta la spesa-prodotto); il tutto viene infine assemblato nella “fabbrica del mondo” a costi più bassi e qualità ineguagliabile. La Cina è infatti il luogo dove ben il 95% degli IPhone viene assemblato.

Atlante geopolitico, Taiwan: se la Cina dovesse riprendersi l’antica provincia ribelle

Ancora, il 70% dei fornitori della Apple si concentra tra Cina (26%), Taiwan (23%) e USA (18%). Oltretutto, durante il Covid abbiamo già sperimentato cosa accadrebbe se la fabbrica del mondo chiudesse i battenti: ritardi su tutte le consegne, intere filiere industriali a rischio, costi di produzione alle stelle. Seguendo la logica del “prevenire è meglio che curare”, all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina e il successivo blocco dei flussi di gas verso l’Europa, le parole d’ordine al giorno d’oggi sono de-resking & friend-shoring.

Nell’ipotesi peggiore o worst-case-scenario per cui americani e cinesi entrassero in conflitto nel 2025, secondo quanto predetto dal Generale della Air Force statunitense, si sta cercando in questo momento di rilocalizzare il più possibile le produzioni nel proprio paese, o comunque, di lasciare la Cina e Taiwan. E dunque, così la TMSC sta aprendo uno stabilimento in Arizona; Google, Amazon, Apple, Dell, HP sono alla ricerca di nuovi sbocchi produttivi nel sud-est asiatico, in India, in Vietnam. La verità è però un’altra: per lasciare Cina e Taiwan ci vorranno almeno 5/10 anni e questo a discapito della qualità e a costi di produzione molto più alti.  

Nonostante le velleitarie intenzioni di un decoupling totale dall’economia cinese e un imminente conflitto suicida, i dati fotografano un’altra realtà. Taiwan, affetta da una certa sindrome di Stoccolma, è sempre più dipendente dalla sua rivale per il 30% del suo import e un 50% del suo export totali. Dall’altra parte, il commercio con lo zio Sam d’America costituisce il 13% di quello totale dell’Isola. Mentre tra il Dragone e gli USA com’è la situazione? Commercialmente, una storia d’amore a tutti gli effetti, a discapito di quello che si dice in politica.

Nel 2022, gli scambi hanno raggiunto il valore record di 690 miliardi di dollari. La politica, dunque, racconta una storia. L’economia ne racconta un’altra, completamente differente. Quale delle due prevarrà? Difficile a dirsi. Tuttavia, il disgelo che si sta scorgendo in questi primi giorni d’estate con l’incontro tra il segretario di Stato americano Blinken e il Presidente cinese Xi Jinping fanno ben sperare. Ciononostante, questi primi segnali di distensione non devono essere sopravvalutati.  

Il presidente cinese. Xi Jinping

La comunità internazionale, noi tutti, tratteniamo il respiro, nella speranza che l’ipotesi di un’eventuale guerra sia scacciata il più lontano possibile. La diplomazia può tuttavia puntare su un aspetto, minimamente secondario: la crescita economica. La volontà di crescere economicamente di Cina e USA potrebbe essere più forte, almeno si spera, di quella di autodistruggersi, e questo solo mantenendo lo status quo di Taiwan. Ciò deve essere corroborato da dati, studi, modelli predittivi che sottolineino come una guerra rappresenterebbe solo un buco nell’acqua dal punto di vista economico per tutte le potenze coinvolte. Le armi della diplomazia devono essere impiegate senza timore, con forza. Il diplomatico esitante non può permettersi una seconda Ucraina. Che puntino egoisticamente sull’interesse economico! Che mettano da parte le rivendicazioni politiche, miopi e incapaci di comprendere quale sia il bene per i loro popoli! Il tempo è poco. 

(Secondo puntata / la prima è stata pubblicata il 01/07/2023)

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