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Atlante geopolitico, Taiwan: se la Cina dovesse riprendersi l’antica provincia ribelle

Accadono cose strane sui cieli di Taiwan. Immaginate di svegliarvi una mattina, alzare la sguardo e scorgere 37 aerei militari cinesi sopra le vostre teste. Questo è quanto accaduto l’8 giugno. A seguire, il 24 dello stesso mese, altri otto aerei da ricognizione hanno attraversato i 160 Km dello Stretto che separa l’Isola di Formosa nel mar cinese meridionale dalla Cina. Una presenza, quella cinese, che si sta facendo sempre più ingombrante.

Il Dragone intende chiudere una faccenda che da troppo tempo è stata lasciata in sospeso. Tuttavia, quando si parla della questione taiwanese bisogna tener ben presente il quadro storico-politico che lega indissolubilmente i due protagonisti di questa incredibile storia: Taiwan naturalmente, l’antica provincia ribelle e la Cina, la Madre patria che sembrerebbe disposta a tutto pur di riprendersela.

Taiwan è stata definita dall’Economist il luogo più pericoloso al mondo, e non a caso. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, infatti, è come se le mire imperialiste del Presidente cinese Xi Jinping sull’Isola di Formosa siano state in qualche modo legittimate. Si teme il peggio: entro il 2027 la cattura della ribelle. Tanto che la Presidente taiwanese, Tsai Ing-wen, eletta democraticamente, perché si, Taiwan è una democrazia a tutti gli effetti dal ‘97, ha esteso la coscrizione militare obbligatoria da quattro mesi ad un anno intero per prepararsi al peggio.

Ciononostante, la dura verità è un’altra: la Cina ha al suo seguito la flotta navale più grande al mondo: 400 navi entro il 2025 contro le 26 taiwanesi, 2 milioni di uomini contro i 163.000 soldati attivi sull’Isola e, come se non bastasse, il Dragone incrementa di giorno in giorno il suo arsenale militare nucleare. Insomma, in confronto i 300 spartani che combatterono contro l’esercito di Serse di Persia sembrano un numero niente male. 

Le due sorelle, però, vissero una sola storia fino al 1894, quando la piccola venne strappata dai giapponesi durante la guerra sino-giapponese. Intanto, in Cina, la rivoluzione Xinhai mise fine all’ultima dinastia imperiale Quing e venne così deposto l’ultimo imperatore Pu Yi (si, proprio quello del film di Bertolucci). Dal caos generato dal cambio di regime, i nazionalisti del Kuomintang (KMT) cominciarono ad organizzarsi in un Esercito Rivoluzionario Nazionale per sfidare i “Signori della guerra”, omologo orientale dei feudatari europei. Al contempo, nella società cinese cominciò a costituirsi un nuovo movimento legato al bolscevismo sovietico, quello comunista.

Tuttavia, la vana speranza che il novello Partito Comunista cinese si potesse alleare con il KMT si spense subito con l’ascesa al potere di un leader che voleva fare della Cina uno Stato liberal-capitalista, Chiang Kai-Shek. Nel 1928, si formò a Nanchino un governo nazionalista. In seguito, con la lunga marcia dei comunisti cinesi al seguito di Mao, novello e indiscusso leader comunista, e la fine della seconda guerra mondiale, Taiwan tornò sotto il dominio cinese. Proclamata guerra al KMT, Mao sconfisse i nazionalisti in una feroce guerra civile costituendo la Repubblica Popolare Cinese comunista.

Chiang Kai-Shek fuggì invece sull’Isola di Formosa, portando con sé tutte le riserve auree del Paese, l’aviazione e la marina. Taipei divenne allora la capitale dei nazionalisti, la “vera” Cina con la quale poter intrattenere rapporti diplomatici. Il destino delle due sorelle era dunque segnato: erano diventate rappresentanti di due visioni del mondo alle antitesi, due culture politiche distanti anni luce e due realtà che da quel momento avrebbero seguito percorsi paralleli.

A Taiwan, il KMT impose nel frattempo un regime autoritario mono-partitico e una ferrea legge marziale che durò fino al 1987. Un periodo, questo, passato alla storia come “il terrore bianco”. Ma è solo nel 1997 che Taiwan ha tenuto le sue prime lezioni democratiche.

Quello che possiamo dire è che ad oggi de facto l’Isola di Formosa rimane un paese indipendente, ma de iure sono pochi gli stati della comunità internazionale che l’hanno riconosciuta (13 su 193, tra i quali nessun paese occidentale).  Gli stessi USA dal 1979 smisero di trattare Taiwan come uno Stato legittimo, riaprendo così le porte alla Repubblica Popolare Cinese che, già nel 1971, sostituì Taipei come membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Venne così sancito il ritorno della Cina comunista nel concerto delle potenze mondiali come attore privilegiato di diritto internazionale. Da quel momento in poi si decise di seguire la cosiddetta politica dello status quo. Questo escamotage consente a Taiwan di agire sostanzialmente come uno Stato a tutti gli effetti (indipendenza de facto), negandole, tuttavia, l’accesso a qualsiasi organizzazione internazionale.

Ci troviamo dunque davanti una classica situazione in cui la forma conta più della sostanza. Se infatti Taiwan proclamasse la sua indipendenza formalmente anche a livello giuridico, l’azione militare cinese non si farebbe attendere. Come è stato più volte minacciato dal governo della Repubblica Popolare. 

La tensione è ora ai massimi livelli storici. Il Presidente Xi Jinping, incarnando il nuovo volto dell’imperialismo cinese 2.0, intende assicurare alla Cina il controllo dell’intero Indo-pacifico. Un’area, a metà tra l’Oceano Pacifico e quello Indiano, dove si concentrano i 2/3 della popolazione e del PIL mondiali e si snoda più della metà del commercio internazionale.

E dunque, a livello strategico, visto il suo posizionamento geografico, se conquistata, l’Isola di Formosa diverrebbe una sorta di rampa di lancio cinese per il controllo del Pacifico e delle sue rotte commerciali. Cosa che, naturalmente, cozza con gli interessi di chi da molti anni esercita un controllo pressoché indiscriminato dell’aerea, gli USA, i quali hanno da subito dichiarato, non a caso, la difesa incrollabile dell’indipendenza de facto taiwanese e il mantenimento della politica dello status quo. 

Oggi tra la popolazione taiwanese si respira un sentimento di paura, una nevrosi collettiva. Il tutto aggravato da campagne di disinformazione che il governo cinese sta montando sulla sua terra irredenta attraverso teorie cospiratorie che cercano di rovesciare la realtà: seconda questo curioso punto di vista, non sarebbe la Cina ad incrementare le sue esercitazioni militari intorno all’Isola, ingrandendo il suo arsenale militare ad un ritmo incessante.

Sarebbero piuttosto i politici corrotti e gli americani a provocare il Dragone e a volere una guerra a tutti i costi. Insomma un copione già letto e riletto se pensiamo a quanto accaduto in Ucraina e alle motivazioni addotte da Vladimir Putin per la sua “operazione speciale”.

L’appuntamento che segnerà la vera svolta è rappresentato dalle elezioni nazionali taiwanesi previste per il 2024. A contendersele, il partito nazionalista, KMT, paradossalmente e a mo’ di tradimento rispetto al passato, incline ad un riavvicinamento con la sorella maggiore cinese e il PPE, a favore invece del mantenimento dello status quo. Dalle urne capiremo come gli equilibri geopolitici e la stabilità nella regione muteranno.

Se a prevalere saranno dunque i giovani taiwanesi nati sotto il segno di una democrazia, desiderosi di un’indipendenza de facto, o i più anziani, nostalgici e prevalentemente propensi ad un riavvicinamento con la Madre patria. Secondo un sondaggio rilevato dalla National Chengchi University di Taipei, il 61% degli intervistati dichiara di sentirsi taiwanese, il 2,7% cinese mentre il 32,9% di entrambe le nazionalità. 

Non ci resta che attendere, dunque, nella speranza che gli stretti legami economici e commerciali tra Taiwan, Cina e USA possano essere impiegati come deterrente contro una guerra che, se dovesse scoppiare, cambierà per sempre le sorti del nostro pianeta. Attendiamo fiduciosi che la diplomazia, ma soprattutto il buon senso, facciano la loro parte. 

(Prima parte / la seconda parte sarà pubblicata domenica 2 luglio )

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