Dopo una lunga agonia è morto di uno dei criminali mafiosi spietati d’Italia: Matteo Messina Denaro. Il boss di Cosa Nostra è deceduto nell’ospedale dell’Aquila, dopo essere stato arrestato il 16 gennaio di quest’anno, mettendo fine a tre decenni di latitanza e fuga dalla giustizia.
Matteo Messina Denaro, il tumore del colon e l’effetto pandemia
La fine del capomafia è stata segnata da una grave forma di tumore al colon, una malattia che gli era stata diagnosticata alla fine del 2020, quando era ancora un fuggitivo. Dopo la sua cattura, Messina Denaro è stato sottoposto a chemioterapia nel supercarcere dell’Aquila, dove gli è stata allestita una sorta di infermeria attigua alla sua cella. Un team di oncologi e infermieri dell’ospedale abruzzese ha seguito costantemente il paziente, che sin dall’inizio era in condizioni gravissime.
Durante i mesi di detenzione, il padrino di Castelvetrano ha subito due operazioni chirurgiche legate alle complicanze del cancro. Purtroppo, non si è mai ripreso completamente dalla seconda operazione, e i medici hanno deciso di non rimandarlo in carcere, ma di curarlo in una stanza di massima sicurezza all’interno dell’ospedale de L’Aquila.
La decisione di interrompere l’alimentazione e dichiarare Matteo Messina Denaro in coma irreversibile è stata presa venerdì, sulla base del testamento biologico lasciato dal boss, che aveva scelto di rifiutare l’accanimento terapeutico.
Nelle ultime settimane, la Direzione sanitaria della Asl dell’Aquila ha iniziato a pianificare le fasi successive alla morte di Messina Denaro e la consegna della salma alla famiglia. La famiglia del boss è rappresentata dalla nipote e avvocato Lorenza Guttadauro e dalla giovane figlia Lorenza Alagna, che è stata riconosciuta di recente e ha incontrato suo padre per la prima volta nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila lo scorso aprile. La giovane Lorenza, insieme alla nipote del boss e alla sorella Giovanna, è stata al fianco di Messina Denaro durante gli ultimi giorni della sua vita.
Con l’arresto di Matteo Messina Denaro, Cosa Nostra ha visto l’uscita di scena dell’ultimo esponente della mafia stragista, segnando così la chiusura di una delle stagioni più terrificanti nella storia dell’organizzazione criminale.
Questa epoca criminale era emersa dall’ombra della dittatura corleonese di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Messina Denaro era stato così strettamente legato a entrambi che era stato considerato il loro erede naturale. Era noto che Provenzano si riferiva a lui nei pizzini con l’appellativo di “Zio,” un segno di rispetto e venerazione.
Tuttavia, nel corso degli anni, la mafia stava subendo profonde trasformazioni sia nella sua struttura che nella sua modus operandi. Non era più l’organizzazione unitaria e verticistica descritta da Tommaso Buscetta, ma era diventata una federazione di gruppi con un forte radicamento territoriale. La scomparsa della vecchia “cupola” era stata segnata dalla cattura di Riina nel 1993, e Messina Denaro aveva conservato la leadership solo sulle cosche trapanesi.
Nonostante la sua fedeltà alla “tradizione,” incarnata dal padre Francesco (morto da latitante nel 1998), Messina Denaro era anche un pragmatista. Era diventato il protagonista di un’evoluzione che cercava di abbandonare la violenza e concentrarsi sugli affari. Tuttavia, la Commissione antimafia aveva notato che, nonostante i cambiamenti, Cosa Nostra aveva mantenuto una “capacità di rigenerazione” intatta, un “ampio consenso sociale” e una grande capacità di intimidazione. In questo processo, di cui Provenzano era stato un anticipatore, Messina Denaro aveva giocato un ruolo significativo.
Aveva archiviato condanne per le stragi di Capaci e via D’Amelio, gli eccidi del 1993 e l’uccisione del giovane Giuseppe Di Matteo, mantenendo però un peso morale nei confronti di quest’ultimo. Aveva esteso la sua influenza in vari settori economici e ambiti politici, controllando la distribuzione delle risorse e l’assegnazione di appalti e incarichi ai suoi fedelissimi.
In particolare, si era circondato di individui della “borghesia mafiosa” che gli fornivano copertura, tra cui il geometra Andrea Bonafede e il medico Alfonso Tumbarello. Aveva perfino dimostrato un interesse per la cultura, apprezzando la buona lettura.
Nonostante la sua latitanza di trent’anni, Messina Denaro aveva mantenuto una rete di conoscenze e relazioni femminili che alleviavano la solitudine della sua fuga. Tra queste, spicca la storia con la maestra Laura Bonafede, poi arrestata, con cui si incontrava anche tra i banconi di un supermercato, sfidando ironicamente i sistemi di videosorveglianza.
Tuttavia, tra tutti i suoi amici, complici e fedeli, Messina Denaro aveva depositato una fiducia particolare nella sorella Rosalia, conosciuta come Rosetta. Era lei che gestiva la cassa di famiglia e la rete di trasmissione dei “pizzini,” fungendo da anello di congiunzione tra il boss e l’esterno. Ma è stata proprio questa connessione che alla fine ha portato alla sua cattura, poiché tra i mille messaggi custoditi da Rosalia ce n’era uno che fungeva da diario clinico di un malato oncologico, un dettaglio che ha innescato l’indagine culminata con l’arresto.
La storia di Matteo Messina Denaro si conclude, così come l’era che ha rappresentato. Ha dovuto arrendersi a uno Stato che non riconosceva il suo manifesto politico sicilianista rintracciato nella casa della sorella. Lascia dietro di sé un vuoto di eredi riconosciuti, tutti messi fuori gioco dalle confische e dagli arresti che hanno circondato l’ultimo padrino di Cosa Nostra.
La sua vita è stata un romanzo criminale che si è ispirato a immagini cult come il Padrino cinematografico, un racconto di un potere senza limiti e senza grazia. Ora, con la sua cattura, si chiude un capitolo oscuro nella storia della mafia siciliana.