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La lezione dimenticata di Alda Merini al tempo dei social media

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Bernardino Quattrociocchi

Bernardino Quattrociocchi

Leggendo i quotidiani di questi giorni mi sono imbattuto più volte nella notizia del suicidio della ristoratrice di Sant’Angelo Lodigiano passata dagli elogi alle critiche più feroci nell’arco di pochi giorni, se non di poche ore; ma ciò che mi ha colpito è stato l’epilogo: il suicidio. Le cronache giornalistiche sono piene di casi simili, per fortuna non sempre tragici, ma non si può non vedere come si passi velocemente dall’anonimato alla ribalta e viceversa in un battito di ali.

Non desidero entrare nel merito della vicenda, anche perché non la conosco in profondità per il semplice fatto di non essere un assiduo frequentatore dei social. Tuttavia, mi viene in mente la lezione di Zygmunt Bauman, sociologo polacco, noto per i suoi studi sulla modernità e teorizzatore della “società liquida”, il quale già nel secolo scorso metteva in guardia dal progressivo deterioramento del concetto di “comunità”, intesa come “individui che si riconoscono” e l’emergere di un “individualismo” sfrenato, dove ogni individuo non si riconosce più nella comunità e non riconosce il compagno accanto, anzi non è più compagno di nessuno, forse non è più compagno nemmeno di se stesso,  ma antagonista di ciascuno e, forse, antagonista di se stesso, fino ad arrivare in alcuni casi a distruggere se stesso.

La conseguenza di tutto ciò è la perdita di identità tanto della comunità quanto dell’individuo nella comunità; fiducia e credibilità si confondono, si alternano e non si distinguono. Più in breve è il fallimento della categoria valoriale di “comunità”. Certamente il concetto di “comunità” di Bauman è diverso dal concetto di “comunità mediatica” che tutti oggi stiamo vivendo, ma la facilità con cui si può comunicare, la facilità con cui si può scrivere, criticare, elogiare, esaltare, ripudiare, spesso impunemente, certamente esalta l’ego, ovvero il concetto di “egoismo” rispetto a quello di “comunità”.  Tutto ciò conduce ognuno di noi, ma non è una novità assoluta, al bisogno di apparire a tutti i costi, per ritrovare una temporanea identità: ecco le comunità di follower, i like agli influencer, che individuano momentaneamente una comunità di simili ed esaltano in un tripudio di notorietà destinata ad evaporare in un battito di ali. Il desiderio di apparire è il postulato dell’esistere, se non sei visibile non esisti, se non critichi, se non elogi non hai valore e tutto questo diventa un valore, molto spesso un valore economico come dimostra ed insegna il digital marketing. Tutto ciò ha una prima tragica conseguenza: dopo l’esaltazione non siamo in grado di sopportare emotivamente l’oblio, dopo gli elogi non siamo in grado di resistere alle critiche. Allora diventiamo tutti, singolarmente e come collettività, una “società fragile”.

Quello che manca in questo momento nella nostra civiltà sociale ed economica è il concetto di identità, di appartenenza, che sia consapevole, ancorato prima ancora che agli individui ai principi in cui una società si possa riconoscere, come parità tra diritti e doveri, difesa del singolo in difficoltà, inclusione, pluralità, tolleranza, sacrificio, perdono, giustizia, recupero, equità economica, educazione, merito, solo per citare possibili categorie valoriali da promuovere, soprattutto con l’esempio.

In questo breve riflettere mi viene in mente la frase di Alda Merini, poetessa spesso incompresa, la quale affermava Siamo padroni delle parole non dette, ma schiavi di quelle che abbiamo lasciato sfuggire.

 

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