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Sara Gama, un calcio ai pregiudizi

Il blu è da maschi, il rosa è da femmine. Gli stereotipi di genere probabilmente partono da qui: dai primi lavoretti alla scuola materna. “Anche se i bambini a certe cose non badano neppure”, racconta Sara Gama. Triestina, classe ’89, Gama è difensore e capitano della Juventus e della Nazionale italiana. Con le bianconere ha vinto cinque scudetti consecutivi, tre Coppe Italia e tre Supercoppe. “Il calcio è ‘da maschi’. Ma non ho mai pensato che essere donna potesse essere un ostacolo. Se sì, l’avrei presa come una sfida da superare”.

La calciatrice Sara Gama, durante la presentazione del documentario Numero 3 Sara Gama, il docufilm prodotto da Rai Documentari

Per la verità, Gama indosserà la maglia azzurra ancora per poco. L’ultima volta da capitana della Nazionale sarà nell’amichevole contro l’Irlanda. “Sto cercando di vivere questi giorni con il sorriso godendomi ogni attimo – ha dichiarato la giocatrice – Ho dato tutto e mi sono tolta tante soddisfazioni, ora lascio nel momento giusto, la Nazionale è reduce da un ottimo percorso in Nations League e le mie compagne faranno di tutto per cercare di portarla più in alto possibile, hanno le potenzialità per riuscirci. Se lascio loro anche una coscienza sindacale? Penso che molte abbiano imparato qualcosa in questi anni, non tutte le generazioni fanno rivoluzioni, ma bisogna sempre cercare di lasciare meglio di ciò che si è trovato. Ci saranno sempre nuove sfide, spero che in futuro ci siano sempre più strutture e mezzi per permettere alle bambine di giocare a pallone”.

Dal lungomare di Trieste ai Mondiali. L’amore per il pallone c’è sempre stato?

Fin da piccola. Non c’è un motivo specifico, ammesso che possa esserci una ragione per cui nasciamo con delle passioni. A casa mia nessuno giocava: scendevo in cortile e calciavo coi miei amici. Nessuno mi ha mai fatta sentire a disagio perché magari preferivo il pallone alle bambole. Forse i bambini sono più meritocratici, vanno oltre le differenze e ciò che conta per loro è che tu sia bravo a fare qualcosa. Io ero brava a giocare a calcio.

Nel 2024 ‘calcio’ e ‘donne’ sembrano ancora due termini contrastanti, sebbene passi in avanti siano stati fatti.

L’eredità maschilista ha lasciato i suoi strascichi. La prima squadra di calciatrici in Italia è nata a Milano nel 1933. Poi il regime fascista ha deciso che il calcio fosse roba da uomini. Anzi: che senza alcuna validità scientifica, il calcio fosse uno sport poco salutare per le donne. Sono stati fatti passi avanti da allora, e in particolare dagli anni ’70 con il riconoscimento di Uefa e Fifa il calcio femminile ha avuto una spinta. Ma la strada è lunga e tutti i cambiamenti culturali richiedono tempo. Di certo lo sport non ha genere.

Alla fine di questa strada però il calcio femminile avrà la stessa risonanza di quello maschile o saranno sempre due fenomeni distinti?

L’importante è mettere ogni volta un pezzetto in più. In Italia questo è il secondo anno in cui esiste il professionismo e si tratta di una pietra miliare. Credo che ormai in tanti abbiano capito che puntare sul calcio femminile è utile, anche dal punto di vista dei flussi economici perché si può raggiungere una fetta più grande di pubblico. Quindi probabilmente sì, il fenomeno crescerà. Ma occorrono visioni similari soprattutto dall’alto. Negli Stati Uniti nel 1972 si è stabilito a livello governativo con il Title IX di dare fondi a quelle scuole superiori e università che investono sulle discipline sportive femminili, tra cui il calcio. E infatti le americane hanno sempre vinto molto. Per questo sul piano politico le decisioni diventano fondamentali. Nel nostro Paese un grande impulso lo ha dato proprio la Juventus, che è stata pioniera quando nel 2017 ha fatto partire la prima squadra, mettendo a disposizione strutture di un certo tipo. Concedere l’Allianz Stadium per il big match Juventus – Fiorentina nel 2018 lo considero una specie di spartiacque. Un modo per far capire che calcio maschile e femminile sono identici e pertanto non devono disputarsi in luoghi diversi. Dopo, altri club hanno seguito l’esempio.

Sono identici sul campo, eppure per le donne continuano a esserci ostacoli di tipo ‘normativo’.

Sì. Ma chi adesso comincia a giocare ha già una prospettiva di vita migliore rispetto a quando ho iniziato io, sempre considerando che la carriera di uno sportivo è limitata e quindi è importante continuare a studiare, tenere aperto il famoso ‘piano B’. Però un’atleta ad alti livelli ora può fare un certo percorso: dal 2022 le iscritte al campionato di Serie A di calcio femminile si vedono riconoscere l’Inail, l’Inps, le garanzie ‘normali’ di un lavoro ‘normale’. Tutto il sistema dovrebbe avere queste garanzie.

Ci sono episodi che nel tempo ricorda con rammarico in cui sono emersi tutti i pregiudizi e la fatica del navigare in un ambiente tradizionalmente dominato dagli uomini?

In realtà no, ma probabilmente dipende dal mio temperamento forte. Non ho mai pensato che essere donna fosse un ostacolo e quindi non ho mai permesso agli altri di pensarlo. Sono sempre stata determinata e competitiva e se mi fossi sentita da meno, l’avrei presa come una sfida. Mi avrebbe dato più forza.

C’è una figura che l’ha ispirata, in questa determinazione?

Tutte le persone che ho incontrato lungo il mio percorso. A casa sono stata incoraggiata, ma la mia famiglia non è mai stata fanatica. Mi hanno sostenuta, mio nonno mi portava alle partite, mia madre le seguiva capendoci poco o nulla. È stato un bene: mi hanno dato libertà. Ci sono genitori che proiettano le loro ambizioni sui figli e a tutti i costi vogliono vederli sfondare in un determinato ambito. Io non ho mai avuto pressioni né in un senso né in un altro.

Quali iniziative ritiene siano fondamentali per promuovere l’uguaglianza di genere nel calcio e nello sport in generale?

Bisogna lavorare sui numeri, perché abbiamo poche tesserate. Quindi occorre andare sul territorio e supportare le società affinché aprano ognuna un settore femminile, anche  quelle più piccole: non è giusto che una bambina per giocare debba spostarsi a chilometri di distanza da casa. Per farlo chiaramente servono soldi. E scelte.

 

Campionesse anche fuori dal campo

 

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