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Il tempo ha un valore che può variare secondo le circostanze. Quando viene sprecato, il valore perso diventa un costo che va pagato fino in fondo. Senza dilazioni, senza possibilità di sconto. Era il 1 ottobre quando il Cdm approvava la Nota di aggiornamento al Def, fissando il deficit al 2,4%. Una scelta giustificata con l’esigenza di assicurare risorse per due misure di bandiera, reddito di cittadinanza e quota 100, indicate da Cinquestelle e Lega come indispensabili per tenere la coesione sociale. Da quel giorno, la decisione di infrangere le regole è stata accompagnata dalla insistita, quotidiana, sfida alle istituzioni europee. E dalla ostentata convinzione di poter sostenere la crescita con quelle stesse misure.

Nei due mesi che sono passati lo spread ha raggiunto e superato il livello di guardia dei 300 punti, bruciando soldi dello Stato, delle imprese, delle banche e dei cittadini che hanno investito in titoli di Stato. Ora quel deficit difeso come un totem potrebbe scendere, intorno al 2%. C’è una trattativa in corso, piuttosto serrata, e i toni sono cambiati. I segnali di guerra hanno lasciato spazio alle bandiere bianche, sventolate senza troppo clamore ma con assoluta disponibilità. L’idea di poter utilizzare l’Europa che censura speranze di cambiamento come strumento di propaganda si è infranta di fronte alla constatazione che i conti non potevano tornare.

Alla presunzione di poter fare crescita in deficit si è contrapposta la realtà, fatta di investimenti fermi e pil che inizia inesorabilmente ad arretrare. A lamentarsi è soprattutto il tessuto produttivo, sono quelle imprese, soprattutto piccole e medie, prima sedotte dal progetto giallo-verde e poi bruscamente sorprese dagli effetti negativi che hanno iniziato a vedere negli ordini e nel fatturato, proporzionali al livello di sfiducia crescente che i mercati hanno iniziato a scontare da subito. E il consenso, lo dicono i segnali raccolti dagli stessi staff di Lega e M5s, sta rapidamente cambiando segno. Come sintetizza Goldman Sachs, sono i mercati a imporre un cambio di rotta all’Italia.

Per questo, ora, il governo rivede le proprie posizioni. Lo fa per convenienza politica, perché anche il più incrollabile dei sostenitori si fa i conti in tasca e volta le spalle quando percepisce il rischio. Lo fa perché costretto dall’inflessibilità con cui il resto d’Europa ha chiuso la porta al velleitario tentativo di infrangere le regole senza pagare un prezzo. Soprattutto, lo fa tardi, dopo aver perso mesi che hanno un costo e che complicano una situazione che, sei mesi fa, era migliore di oggi.

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