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C’è stata negli ultimi dieci anni una struttura che ha faticosamente fatto i conti con le conseguenze peggiori della crisi: la chiusura delle fabbriche e la perdita di posti di lavoro. Al Mise si sono tenuti negoziati estenuanti, ore e ore di trattative per limitare i danni, tenendo insieme quello che resta della politica e delle relazioni industriali. Si sono succeduti i ministri ma quella struttura ha sempre funzionato. Facendo mediazioni, imponendo compromessi, mettendo sul tavolo il peso delle decisioni politiche. Sui grandi dossier, Fca, Ilva, Alitalia e su tutte le altre crisi.

Poi, è arrivato il governo Lega-Cinquestelle. C’è stata la scelta, quanto meno azzardata, di accorpare il ministero dello Sviluppo Economico e quello del Lavoro, con un solo ministro e una sola responsabilità politica, quella di Luigi Di Maio. Allo Sviluppo Economico, in particolare, è stata applicata anche una logica di spoil system che ha cambiato uomini in ruoli nevralgici. Soprattutto, la politica ha smesso di esercitare il suo ruolo. Ha smesso di sporcarsi le mani in ogni singola vertenza, ha abbandonato il tavolo, evitando quel contatto diretto con le aziende, con i sindacati, con le istituzioni locali, che serve a tenere in piedi rapporti che incidono nelle sorti dei siti industriali e dei loro lavoratori. La politica industriale si può fare solo così. Lavorando, discutendo, alzando la voce quando serve.

Oggi ci sono tre storie diverse che chiamano in causa proprio questa capacità (o incapacità) del Governo di fare valere il suo peso.

Quella più eclatante è l’operazione Fca-Renault, con il ritiro dell’offerta della casa automobilistica Italo-americana. La ragione principale sono le resistenze del governo francese, preoccupato per le ripercussioni in Francia e per i dubbi del socio giapponese, Nissan. Non pervenuto, secondo quanto risulta, il sostegno del governo italiano.

Altrettanto delicato il dossier ex Ilva. ArcelorMittal Italia, a causa della “grave crisi di mercato”, ricorrerà alla Cassa integrazione ordinaria per un numero massimo di circa 1.400 dipendenti al giorno del siderurgico di Taranto per 13 settimane. La decisione, annunciata via comunicato stampa, giunge a sei mesi dalla stipula dell’accordo sindacale (8 settembre) al Mise che ha portato all’assunzione di 10.700 lavoratori nei vari siti (8.200 a Taranto) e alla dichiarazione di esubero di altri 2.586 dipendenti rimasti in capo all’Ilva in amministrazione straordinaria in Cigs a zero ore. Evidente, anche in questo caso, che il Mise dovrebbe intervenire con energia.

Poi c’è il rischio di nuove delocalizzazioni. Whirlpool vorrebbe vedere lo stabilimento di Napoli, nonostante l’accordo sottoscritto nell’ottobre del 2018 per promuovere la produzione in Italia. Un epilogo per la fabbrica in Campania, dove sono occupate 420 persone, che potrebbe portare alla chiusura o al ridimensionamento. Dopo 54 anni il dado Knorr dice addio all’Italia. La Uniliver, proprietaria del marchio dal 2000, ha infatti deciso di lasciare lo stabilimento di Sanguinetto, in provincia di Verona, e delocalizzare la produzione in Portogallo.

La lista delle partite aperte, e di quelle che si potrebbero aprire a breve, è lunga. E l’urgenza di avere un ministero dello Sviluppo Economico in grado di fare la sua parte è sempre più evidente. Serve un ministro a tempo pieno. Anche lo stesso Di Maio, a patto che sia in grado di guidare la politica industriale che serve a salvare produzione e lavoro, fattori indispensabili per sostenere almeno la speranza di tornare a crescere.

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