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Le scelte ‘politiche’ di Ceo e aziende

Sempre più Ceo si schierano sulle grandi questioni, anche pagandone le conseguenze. Pensano che rimanere passivi possa portarli ad operare in ambienti ‘ostili’.

Una delle pubblicità più divisive degli ultimi anni porta la firma di Gillette. Una campagna globale, e imponente in termini di budget, per schierarsi a fianco del movimento #MeToo. Talmente disruptive da mettere in discussione il tradizionale modello di mascolinità del brand di Boston, e contraddire, platealmente, lo stesso modo con cui Gillette ha comunicato se stessa e i propri prodotti negli ultimi anni.

Il caso Gillette è emerso proprio nel momento in cui Nike ha sorpreso il mondo scegliendo, come proprio testimonial, un ex giocatore di football americano, Colin Kaerpenick, atleta simbolo della protesta dei giocatori della Nfl contro gli abusi della polizia nei confronti degli afroamericani, reso celebre dal suo gesto di inginocchiarsi durante l’Inno americano. Questa mossa ha proiettato l’azienda all’interno del perimetro di discussione intorno alla discriminazione razziale, attirando elogi ma anche critiche dal mondo della politica e dalla stessa Casa Bianca.

Quello di Gillette e di Nike sono due esempi, recenti, di come grandi aziende (e grandi brand) abbiano scelto di prendere posizioni forti, pur consapevoli di finire nel mirino e – inevitabilmente – di pagarne alcune conseguenze (Nike ha visto il titolo cadere in borsa in conseguenza dell’endorsement nei confronti di Kaepernick, mentre le vendite di Gillette sono calate subito dopo il lancio della campagna, per non parlare delle pressioni sull’immagine e sulla reputation del brand).

Siamo davvero dinanzi a un cambio di ruolo per le aziende? È opportuno che inizino a prendere posizione “politiche” e sollecitare clienti e pubblico sulle grandi questioni?

La versione completa di questo articolo è disponibile sul numero di Fortune Italia di settembre.

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