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Le big tech continuano a crescere, ma al fisco italiano vanno le briciole

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Mettiamoli in ordine: Microsoft 16,5 milioni, Amazon 6 milioni, Google 4,7 milioni, Oracle 3,2 milioni, Facebook 1,7 milioni, Uber 153mila euro. Alibaba 20mila euro. Sono le tasse pagate nel 2018 dalle big tech, i giganti di Internet che, per vedere il problema da un’altra prospettiva, hanno risparmiato tra il 2014 e il 2018 oltre 74 miliardi di euro di tasse a livello globale, domiciliando circa la metà dell’utile ante imposte in Paesi a fiscalità agevolata. Il quadro lo dipinge R&SMediobanca analizzando i conti delle 25 WebSoft con fatturato superiore agli 8 miliardi di euro.

Anche nel 2018, quindi, i colossi mondiali del web e del software con una filiale nel nostro Paese hanno lasciato al fisco italiano le briciole: 64 milioni di euro è il saldo di quanto versato da 15 società WebSoft analizzate da R&S Mediobanca, a cui si aggiungono i 12,5 milioni di Apple, non inclusa nel campione.

Per quanto riguarda i 74 miliardi di ‘risparmi’, Mediobanca ci arriva sommando i 49 mld delle altre WebSoft con i 25 di Apple, ‘regina’ dell’ottimizzazione fiscale, davanti a Microsoft (16,5 miliardi), Google (11,6 miliardi) e Facebook (6,3 miliardi). Nel 2018 l’aliquota media del campione è stata del 14,1%, ben al di sotto dell’aliquota ufficiale del 21% degli Usa e di quella del 25% della Cina, dove hanno la sede operativa gran parte delle aziende. Amazon, Google e Facebook sono riusciti a contenere il tax rate rispettivamente all’11%, 12% e 13%. Nel 2018 i colossi di internet hanno pagato 17,6 mld di tasse, risparmiando 5 miliardi grazie al ricorso a paesi a fiscalità agevolata, 1,3 miliardi grazie alla riforma fiscale degli Usa e 6,3 miliardi per i crediti fiscali relativi alle attività di ricerca. Da notare che tutte le sette Websoft cinesi hanno sede fiscale alle Cayman mentre 13 delle 14 statunitensi, con l’eccezione di Microsoft, nel Delaware.

Il bello è che, sempre secondo Mediobanca, di soldi per pagare le tasse ce ne sono, considerati i conti da record, e il boom in Borsa, dei giganti del web. Un fatturato cresciuto nel 2018 a 850 miliardi di euro, con un aumento del 24,5% sul 2017 (e del 110% sul 2014), utili in crescita del 20,3% a 110 miliardi, che portano a 413 miliardi il saldo dei profitti incassati tra il 2014 e il 2018, dipendenti quasi raddoppiati (+91,6%) a quota 2 milioni in cinque anni, con la sola Amazon che, con i suoi 647 mila impiegati, ha determinato la metà di questo aumento.

I risultati impressionanti messi a segno dalle 25 multinazionali ‘WebSoft’ non finiscono qui. La crescita annua dei ricavi nel quinquennio è stata pari a quasi sei volte quella delle multinazionali manifatturiere (20,3% contro il 3,1%), ‘stracciate’ anche sul fronte degli utili (+20,3% all’anno per le websoft a fronte del +4,3% delle altre). La capitalizzazione di Borsa ha toccato a metà novembre del 2019 i 5.065 miliardi con un aumento medio annuo del 19,8% a fronte del +3,3% delle multinazionali della manifattura. A fine 2018 la capitalizzazione aggregata dei giganti websoft valeva 8 volte quella di Borsa Italiana, con tutta la ‘corporate Italia’ che vale meno di ciascuna delle tre società sul podio: Microsoft (1.027 miliardi), Google (821 miliardi) e Amazon (791 miliardi).

Il mare di liquidità a disposizione, pari a 507 miliardi a fine 2018, le big tech lo usano per andare a caccia di startup o acquistare azioni proprie in modo da sostenere la capitalizzazione di Borsa. Mediobanca rileva che parte della liquidità delle ‘websoft’ è stata utilizzata per acquistare piccole startup, pagandole anche cifre stellari, con l’effetto di concentrare sempre più il mercato e arginare sul nascere la concorrenza. Nel 2018 i primi tre gruppi del settore (Amazon, Google e Microsoft) fatturavano circa la metà di tutto il campione. Dall’analisi emerge anche che le websoft hanno investito in titoli con scadenza a breve 305 miliardi di euro, pari al 22% del loro attivo. Una percentuale che le fa apparire “istituzioni finanziarie travestite”, secondo Mediobanca, considerato chele maggiori banche europee e americane hanno investito in titoli a breve in media il 21% del loro attivo.

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