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Esperienze e negozi-Instagram contro l’apocalisse del retail

Il 2019 è stato l’anno nero per il retail Usa: vi avevamo già parlato delle chiusure dei mall americani, che sono passati dall’essere il simbolo della società americana a non-luoghi in via di abbandono. Per la crisi che i negozi fisici stanno registrando, è stato coniato anche un termine specifico: si parla di “Retail Apocalypse”, l’apocalisse della vendita al dettaglio (anche se non tutti sono concordi sul fatto che l’apice dell’apocalisse si sia già raggiunto). Secondo l’agenzia Coresight Research, che monitora chiusure e aperture dei negozi, il 2019 ha segnato un record: negli Usa l’anno che si è appena chiuso ha registrato 9.275 chiusure. Nel 2018 erano state 6.897. La catena di calzature scontate Payless ShoeSource si è aggiudicata lo sfortunato primo posto nella classifica dei negozi che hanno chiuso il maggior numero di punti vendita: l’azienda ha dichiarato bancarotta a febbraio ed ha chiuso tutti i suoi 2.100 negozi negli Usa. Ma nella lista dei brand che hanno dovuto abbassare le saracinesche ci sono anche nomi famosi: dal marchio di lingerie Victoria’s Secrets, alle catene di fast fashion come Forever 21 fino al multipara del lusso Barneys.

“Ciononostante, il Brick & Mortar è ancora vivo” dice a Fortune Italia Erica Mazzucato, esperta di retail ed e-commerce basata a New York. Attualmente dirige iniziative di Product Marketing per Corra, un’agenzia e-commerce globale, analizzando dati di mercato e nuovi trend digitali per anticipare i bisogni dei clienti. “Nonostante l’e-commerce sia la ragione principale per cui i mall si stanno spopolando, i dati più recenti dello U.S. Department of Commerce confermano che il 90% delle vendite retail avviene ancora in negozio, dove il 71% di consumatori spende di più di quando compra online”. Questo non sembra valere solo per i consumatori più anziani ma anche per millennials e per i giovanissimi della cosiddetta ‘generazione Z’, che hanno dimostrato un’attitudine positiva verso il retail.

“Un segno ancora più chiaro di come i negozi rimangano indispensabili viene dai brand digitally native, ossia dai marchi che hanno aperto battenti esclusivamente online spopolando negli Stati Uniti grazie al loro approccio direct to consumer e a un’attenzione maniacale verso tutti i dettagli che compongono la customer experience, dalla cura del packaging ai 30 giorni di prova gratuita” continua Mazzucato. “Ad oggi ci sono già migliaia negozi gestiti da brand digitally native come ThirdLove, Warby Parker, Casper, Allbirds e Away e, secondo JLL, una delle più grandi agenzie immobiliari d’America, 850 apriranno ancora entro il 2023”.

Se il negozio fisico così come siamo abituati a vederlo finora non funziona più, dunque, è necessario un ripensamento totale, che deve prediligere l’esperienza di acquisto. “I brand nativi digitali sembrano aver capito che lo spazio in-store offre un’opportunità unica di formare comunità fisiche con i propri clienti”. Il mondo del retail statunitense, per il 2020, sarà guidato proprio da queste parole chiave: comunità, autenticità e fidelizzazione.

“La società di ricerche di mercato Forrester ha previsto che nel 2020 i consumatori vedranno i brand come veicoli per trovare relazioni interpersonali e cause in cui credere. In quanto a loyalty, un recente questionario di Reader’s Digest ha rivelato che la maggior parte dei millennial sono più inclini a ricomprare da marchi che conoscono e di cui si fidano – marchi che hanno saputo formare una relazione a lungo termine con i loro consumatori. Formare relazioni significa andare oltre la mera transazione per offrire esperienze che rimangono a lungo nei pensieri dello shopper”.

Comunità e fidelizzazione si ottengono attraverso quello che viene chiamato “experiential shopping” ovvero l’approccio esperienziale, che consiste in un ripensamento anche degli interni, creati per diventare luoghi di incontro, divertimento e soprattutto come background per Instagram-post. “Gli esempi sono innumerevoli. Barkshop punta alla comunità degli amanti dei cani con app che rivela le loro preferenze in termini di giochi, negozio d’arredamento Snowe riceve i clienti solo per appuntamento per fargli vivere l’esperienza di una nuova casa (con tanto di bicchiere di vino offerto), Casper offre ai Newyorkesi stressati la possibilità di schiacciare un pisolino di 45 minuti a soli 25 dollari” spiega Mazzucato. “Soddisfare la sete di “self expression”, sorprendere il consumatore, personalizzare il percorso d’acquisto ed evidenziare l’appartenenza ad un gruppo sembrano essere le tattiche vincenti per attrarre i consumatori e rispondere al loro desiderio di essere convertiti da spettatori a parte integrante della brand community”.

Il trend degli acquisti esperienziali si registra anche nel settore immobiliare: “I colossi del real estate stanno sfruttando le chiusure dei negozi nei mall come una possibilità di offrire esclusività tramite nuovi formati immobiliari quali il pop-up e l’affitto a breve termine. Un altro mercato in espansione e il Retail As A Service (o RaaS). Ispirato al concetto di Software As A Service, questo business model offre ai retailer l’opportunità di aprire un negozio fisico senza dover investire in arredamento, contratti a lungo termine, personale, tecnologia e addirittura magazzino (spesso assente, in quanto ogni prodotto può essere acquistato online direttamente in negozio e ricevuto il giorno dopo). b8ta, Showfields, Neighborhood Goods e Bulletin sono esempi di compagnie che offrono negozi chiavi in mano ai brand direct-to-consumer in cambio di una percentuale delle vendite, dei dati raccolti in-store, o entrambi. Spazi come Showfields, il quale ha appena raccolto 9 milioni di dollari in un seed round, hanno come obiettivo radunare brand orientati al design e offrire ai visitatori un’esperienza diversa ogni volta che varcano la soglia”. Mazzucato non è sicura che questi trend, alla fine, salveranno effettivamente il mondo del retail dall’apocalisse, ma di una cosa è certa: “Le linee tra online e offline stanno diventando sempre più sfumate”.

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