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Riforma autonomie, digitalizzazione, fisco. Il ministro Boccia fa il punto

Il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, è impegnato nella riforma delle autonomie. Un tema cruciale che si inserisce in un ragionamento più ampio sulle priorità per il nuovo decennio che si apre.

Articolo di Caterina D’Ambrosio apparso sul numero di Fortune Italia di gennaio 2020.

Laureato in Scienze Politiche, master alla Bocconi, già ricercatore alla London School of Economics e docente in diversi atenei, Francesco Boccia è oggi il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie. Un percorso politico tutto interno al Pd, esperto dei principali temi economici, primo firmatario della legge che ha riformato il bilancio dello Stato ridisegnando di fatto l’assetto delle regole della finanza pubblica. Appassionato di sport, tifoso della Juventus, esperto di nuove tecnologie, Nicola Zingaretti lo ha nominato nella segreteria come responsabile Economia e società digitale, ma è la riforma delle autonomie ad assorbire gran parte del suo lavoro di governo.

Come ministro le spetta forse il compito più impegnativo, portare a compimento l’autonomia regionale nel rispetto dell’art. 3 della Costituzione

Stiamo andando sull’unica strada che indica la Costituzione, vale a dire una possibile attuazione dell’art. 116 che completa il processo di autonomia delle Regioni e degli Enti Territoriali del nostro Paese, ma rispettando tutti gli articoli del Titolo V che consentono l’autonomia di essere percepita per quello che deve essere. L’autonomia ha senso se rispetta il principio di sussidiarietà che è scolpito nella Costituzione, inteso come nuovo modello sociale. Se è questo il percorso, non potrà che applicarsi anche l’art. 119, vale a dire perequazione delle e tra le Regioni a statuto ordinario, e perequazione con tutto il sistema degli enti territoriali. Oltre a quella infrastrutturale e quella connessa ai servizi. In altre parole, il perimetro deve prevedere, oggi per domani, quali saranno le competenze che verranno trasferite alle Regioni, alle città metropolitane e agli enti locali. Quando si parla di autonomia bisogna avere bene in chiaro in testa qual è l’impegno dello Stato nel definire i livelli essenziali di prestazioni. Dai quali non si può derogare.

Lei è un profondo conoscitore delle tematiche digitali e il 5G è una delle scommesse di un futuro che è già presente ma che rischia di lasciare fuori intere porzioni di territorio. Come si può evitare?

Il 5G, e quindi la dotazione per il nostro Paese delle reti di ultimissima generazione, è un passaggio obbligato e, a differenza da quanto accaduto sinora, gli investimenti pubblici devono partire dalle aree meno sviluppate. È facile fare investimenti con risorse pubbliche nelle grandi aree metropolitane, già ampiamente efficienti. Più complesso farlo partendo dai borghi, dalle aree interne dalle zone di montagna. Il 53% della superficie del nostro territorio è costituito da montagne. Nei comuni montani vivono oltre 9 milioni di abitanti, e altri 2 in zone collinari. È necessario che questi 11 milioni di italiani, che si sommano agli altri 10 delle aree interne, abbiano gli stessi diritti degli altri 40 milioni. Le politiche pubbliche non possono seguire unicamente la convenienza economica. Il 5G va fatto. Non è pensabile parlare di AI e Blockchain senza fare investimenti capillari che coinvolgano tutti.

L’Europa e le imprese europee sono fortemente penalizzate dall’evasione delle grandi multinazionali. Nonostante le multe inflitte ai grandi gruppi, un vero cambio di passo ancora non c’è…

Da quando nel 2013 ho fatto approvare in Parlamento la web tax (abolita poi dal Governo Renzi, ndr) molte cose sono cambiate in realtà. All’epoca sembravo un eretico, la classe politica era totalmente impreparata rispetto alle sfide che avevamo di fronte che non riguardavano unicamente le regole fiscali. Penso soprattutto al tema connesso alla gestione e proprietà dei dati, alla privacy, alla sicurezza. All’epoca c’era il mito che sulla rete si potesse fare e dire di tutto e questo consentiva ai giganti del web di imporre la loro legge. Oggi per fortuna c’è una consapevolezza diversa. Dal punto di vista legislativo abbiamo messo in campo norme sulla tracciabilità, il ruling. Dal punto di vista giudiziario, le imprese hanno patteggiato e pagato il dovuto. Ora finalmente siamo arrivati alla fase in cui tutti sono concordi nel dire che una web tax è necessaria. Il 3% della digital tax è un primo passo anche se io sono per l’obbligo di stabile organizzazione che è l’unico modo per far pagare le tasse alle imprese che arrivano in Europa. C’è un evidente problema connesso a vecchi trattati ma non è pensabile – ad esempio – che gli Stati Uniti pretendano che le aziende americane facciano in Europa quello che non è permesso da loro. Giustamente Trump pretende che negli Usa le imposte siano pagate fino all’ultimo cent, non è pensabile che in Europa non facciano lo stesso. Tra amici è opportuno dirsi le cose come stanno e confido che Trump abbia lo stesso rispetto per quanto riguarda l’attività delle aziende americane in Europa.

Le aziende italiane – nel mondo – sono tra le più colpite dal peso del fisco. Oltretutto, dazi e dumping sociale rischiano di diventare un incubo per imprese e investitori.

Chi di dazio ferisce di dazio perisce. Gli americani avrebbero dovuto impararlo dai cinesi. È diminuito l’import ma è diminuito anche l’export, di oltre 11 mld di dollari in un anno. Il saldo è negativo, è evidente a tutti. Rischiano di fare la stessa cosa con l’Europa. Penso che l’Ue debba reagire da grande continente, per una volta davvero unito.

Torniamo a casa nostra. Gli ultimi dati Svimez parlano ancora di un Paese a due velocità, eppure al Sud qualcosa si muove. Nuove startup, Pmi innovative. Crescono gli investimenti privati, crollano quelli pubblici soprattutto infrastrutturali.

Vengo da una zona del Sud molto produttiva. L’area metropolitana di Bari ha tassi di sviluppo da Baviera, poi però so bene che la Puglia non è solo questo. C’è una contaminazione con l’Università che è fondamentale. Il Politecnico di Bari assicura i migliori ingegneri, formati a costi decisamente ridotti rispetto a quelli tedeschi. Ci sono servizi, infrastrutture, ma ci sono anche le criticità delle aree interne del foggiano, che hanno una grande fame di reti, sviluppo, investimenti. Ha ragione Svimez quando pone l’accento sull’importanza di investimenti pubblici, in particolare infrastrutturali. Mancano circa 10 punti l’anno di investimenti al Sud. Uno dei temi centrali della riforma sulle autonomie è proprio la costituzione di un Fondo per la perequazione infrastrutturale che dovrebbe garantire investimenti pari al 34% al Sud, nel rispetto delle risorse per le aree interne e delle comunità montane.

Molte aziende, soprattutto le piccole e medie che costituiscono il tessuto economico del nostro Paese chiudono a causa della forte pressione fiscale. Non crede che forse serva cambiare la filosofia impositiva?

La strada maestra è abbassare le tasse sul lavoro. È la mia ossessione, lo è anche nel Pd. Inutile ricorrere a misure che finiscono in mille rivoli. Se ci fosse il coraggio, anche in questo Parlamento, di concentrare tutte le risorse disponibili sulla riduzione del cuneo fiscale, faremmo un passo avanti. Le risorse ci sono, bisogna fare delle scelte.

Siamo appena entrati negli anni 20. Anni che Zingaretti ha messo al centro in una assemblea nella quale si immaginava un futuro possibile. Quale sarà secondo lei il grande tema di questo ventennio?

La nostra è una società che ha nuovi e diversi orizzonti, che incrociano la sostenibilità ambientale, l’attenzione dell’Uomo verso l’ambiente, verso il consumo di suolo, verso modelli di produzione che siano rispettosi del pianeta. L’economia circolare, i ‘nuovi’ lavori non possono essere solo materia da convegno ma essere parte viva della nostra società. Tutto questo si può fare se si interpretano correttamente società e capitalismo digitale, che come tutte le rivoluzioni capitalistiche impongono sfide anche per gli Stati. Non è vero che il tempo digitale non ha bisogno dello Stato. Ne ha bisogno ugualmente, magari con una forma più snella ma più forte nella sua capacità di regolazione, altrimenti la forbice tra le fasce della popolazione si allarga sempre di più. Pochi se ne rendono conto davvero, ma stiamo vivendo una vera rivoluzione capitalistica, come lo fu per le macchine a vapore, l’energia elettrica, l’avvento dei primi computer negli anni ‘60. Abbiamo bisogno di una rotta. Garantendo pari diritti a tutti, con leve che sono nel bilancio dello Stato. Penso ad esempio all’istruzione la cui centralità è sicuramente maggiore rispetto agli anni passati. Dobbiamo garantire il tempo pieno, formare giovani che siano all’altezza delle sfide. È cambiato il welfare, sono venute meno le condizioni sociali di un tempo e la scuola deve essere all’altezza. Gli anni ‘20 che abbiamo davanti mettono al centro un concetto moderno di lavoro, scuola e ambiente. Intorno a questi tre pilastri si costruisce una visione di una società progressista, nuova e moderna. È l’unica alternativa ai nazionalismi, ai fili spinati, ai dazi, a un’Europa amputata.

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