Ho appena fatto il tragitto che mi porta da casa in redazione. Lo sto facendo tutti i giorni da quando è iniziata l’emergenza Coronavirus. In moto, incrociando poche macchine, molti rider delle consegne a domicilio e molte pattuglie di Polizia, Carabinieri e Municipale. Le persone che escono si muovono quasi tutte a piedi. Più anziani che giovani, in tutti i quartieri di Roma che attraverso. Sono concentrate per la maggior parte intorno ai negozi aperti, quasi tutti alimentari, e ai supermercati.
Fino a ieri, file ordinate e gestibili. Oggi, le file sono più lunghe e anche più disordinate. In alcuni casi diventano assembramenti che rischiano di diventare bivacchi.
All’incrocio tra viale Regina Margherita e via Morgagni, c’è un supermercato che per tutta la settimana è stato un’isola felice. Ingresso ovviamente contingentato ma nessuno in attesa. Siamo vicini al Policlinico, quartiere di uffici generalmente chiusi e con una bassa densità di residenti. Oggi la fila è lunga e c’è gente che riempie il marciapiede. “Qui chiudono pure i supermercati, rimaniamo senza niente”. “Hanno detto che da domani apre solo la mattina”. Le voci dalla fila, insieme ai carrelli stracolmi che escono dalla porta scorrevole, descrivono la reazione che si innesca ogni volta che si rincorrono voci incontrollate di nuove strette.
Si avvicina anche un poliziotto appena sceso da una volante. “È la terza volta che passo, a distanza di un’ora la gente è triplicata”, mi dice, e quando gli mostro il tesserino per fargli qualche domanda in più mi risponde secco: “scrivilo, glielo spiego io che sto in mezzo alla strada tutto il giorno: non facessero cazzate, i supermercati devono stare aperti il più possibile“. Definitivo. Non servono neanche le domande.
