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2 giugno, i rischi della piazza del centrodestra

C’è stata una fase nell’emergenza legata al Coronavirus in cui sembrava potesse nascere qualcosa di diverso. L’obiettivo comune, sconfiggere il virus, sembrava poter far convergere gli sforzi di tutti nel tentativo di risolvere problemi e creare le condizioni per uscirne con meno danni possibile. Quella fase, se c’è stata, è durata poco. L’allentarsi dell’allarme sanitario, la percezione dello scampato pericolo, hanno rimesso subito in moto nel tessuto politico e sociale la spinta alla contestazione e alla protesta. Sono, tutte e due, manifestazioni fondamentali in qualsiasi democrazia, con la critica del potere, e delle decisioni assunte da chi detiene il potere, che resta un esercizio essenziale per il suo buon funzionamento.

 

C’è anche, però, un altro tema che il 2 giugno, Festa della Repubblica, merita di essere sollevato. Gli ultimi tre mesi hanno contribuito ad allargare la distanza tra chi li ha vissuti continuando a prendere lo stipendio, o a incassare denaro, e chi ha perso il lavoro o ha visto ridursi drasticamente le proprie entrate. E c’è anche chi, già in difficoltà prima del Coronavirus, oggi è in condizioni disperate. Ci sono attività che non hanno riaperto e altre che rischiano di richiudere. Ci sono lavoratori ancora coperti dagli ammortizzatori sociali che guardano all’autunno con la ragionevole preoccupazione di rimanere senza il loro impiego. C’è la malavita che cerca di approfittarne, reclutando manodopera e cercando di infiltrarsi nell’economia, per ripulire denaro sporco e trovare nuove fonti di profitto illecito. Succede ogni volta che si deve ripartire, che si deve ricostruire, dopo una crisi profonda.

 

In questo quadro, servirebbe soprattutto responsabilità. E invece c’è una spinta che diventa sovversiva quando incrocia le pulsioni peggiori che si annidano in una crisi come quella che stiamo vivendo: il negazionismo, il complottismo, il sovranismo populista, il nuovo e vecchio fascismo, quello abituato a pescare nel disagio sociale per fare proseliti. Con le curve degli stadi chiuse, la piazza diventa uno spazio utile per far passare gli slogan che le difficoltà rendono ancora più efficaci. I gilet arancioni e il generale Pappalardo, le provocazioni di Casapound, gli episodi di intolleranza che si rincorrono. È rumore che serve alla propaganda ma è rumore che va ascoltato.

 

Per questo, la manifestazione del centro-destra a Roma del 2 giugno assume un peso particolare. L’opposizione ha tutto il diritto di andare in piazza per sostenere le proprie idee. E la critica all’operato del Governo, che peraltro in un passaggio complesso come quello attuale sta alternando buoni provvedimenti a errori che vanno evidenziati, non deve mai essere silenziata. Ma Lega, Fdi e Forza Italia devono farlo tenendo conto di quello che sta attraversando il Paese. La manifestazione si svolge senza tenere conto delle prescrizioni e del distanziamento sociale. E doveva essere evitato. Almeno, i leader del centrodestra dovrebbero prendere nettamente le distanze dalla melma che gli si muove intorno. Evitando di finire nella stessa pentola dove bollono le forze eversive, i complottisti, i mitomani e gli sciamani.

 

Il calcolo e l’opportunismo politico possono avere anche un beneficio in termini di consenso apparente. Ma possono anche comportare un prezzo alto da pagare. Gli Stati Uniti sono lontani, in termini geografici, politici e sociali. Ma la gestione del caso della morte di George Floyd, e della guerriglia che sta attraversando il Paese, insegna che la distanza si può accorciare fino ad annullarsi se la tensione sociale viene strumentalizzata, alimentata o semplicemente sottovalutata.

 

 

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